Le forze speciali italiani nel cuore del Califfato, in azione con professionalità e capacità di dialogo, fino a diventare determinanti nell’attacco frontale contro l’Isis. Come a Falluja, la roccaforte di tutte le insurrezioni sunnite e primo bastione dello Stato Islamico assediato nel 2016 dalle brigate del governo iracheno sostenute dalla coalizione internazionale. A rivelare la storia segreta della missione degli incursori del Col Moschin è un colonnello dei Marines, Andrew Milburn, passato nella riserva dopo 31 anni di servizio. Nell’estate 2015 Milburn riceve l’incarico di coordinare sul campo tutte le forze speciali occidentali impegnate nella lotta contro il Daesh. Ma c’è un problema: agli americani viene proibita la collaborazione con i reparti scelti iracheni dell’ERD, l’Emergency Response Division dipendente dal ministero dell’Interno di Bagdad. Sono battaglioni formati da sciiti, ex miliziani legati all’Iran e protagonisti di feroci rappresaglie contro i sunniti. “Nella battaglia di Falluja del 2016 questo divieto era problematico, perché l’Erd era l’unità di punta irachena in gran parte dei combattimenti. Per fortuna, la task force italiana era stata incoraggiata dalla sua catena di comando ad aiutarla”, spiega il colonnello Milburn: “Così, utilizzando i nuclei italiani di direzione del tiro, il comando alleato ha potuto far intervenire i nostri aerei permettendo alle truppe sciite di avanzare, ma evitando che si percepisse un sostegno diretto della coalizione”.
Via gli americani, toccherà all’Italia guidare in Iraq la missione Nato
di Gianluca Di Feo 21 Febbraio 2021
Il ruolo degli sciiti
Il legame tra il nostro contingente e questo reparto composto da sciiti iracheni è stato molto stretto. La formazione è stata curata a Bagdad da istruttori dei carabinieri e perfezionata poi dagli incursori del Nono Reggimento, il leggendario Col Moschin. Un reporter americano ha lodato la bravura di un cecchino dell’Erd, che lo ha salvato da un imboscata dell’Isis, ringraziando gli italiani che gli avevano insegnato a sparare. “Le vostre forze speciali hanno fatto diverse cose per l’Erd: hanno aiutato ad addestrarli e lavorato con i loro ufficiali per pianificare le offensive – prosegue il colonnello Milburn -. Il contributo più importante si è visto a Falluja ed è stato molto ingegnoso. Gli italiani non erano autorizzati a intervenire direttamente negli scontri, ma si trovavano ad una distanza dalle avanguardie di Erd che consentiva le comunicazioni con i cellulari. Perciò avevano insegnato alle pattuglie dell’Erd come fornire per telefono le coordinate delle postazioni dell’Isis. Poi gli italiani chiamavano il mio comando a Bagdad, che inviava i droni o i bombardieri sugli obiettivi indicati. Era una catena di comunicazione complessa, che però ci permetteva di colpire le unità dello Stato islamico sul terreno nel giro di 15 minuti. Questo fa comprendere le capacità del vostro personale, perché parlava con gli iracheni che avevano un accento molto marcato in inglese, ma riusciva a capirli e trasmettere le informazioni a noi. C’erano grandi rischi che qualcosa andasse storto, ma grazie alla professionalità degli italiani non è mai successo”.
La battaglia di Falluja
A Falluja si è combattuto casa per casa per oltre cinque settimane. Spesso tra truppe amiche e nemiche c’erano poche decine di metri: un errore nel trasmettere le coordinate ai bombardieri avrebbe causato una strage. Sono stati giorni terribili, che hanno visto le squadre del Col Moschin operare a ridosso della prima linea: un infermiere degli incursori si è trovato da solo a soccorrere tutti i feriti provocati da un’autobomba, fatta esplodere in un accampamento dell’Erd. Il caporale italiano ha curato più di cento persone, tanto da venire premiato negli Usa come “medic of the year”. In un’occasione, ricorda il colonnello Milburn, la base degli italiani è stata attaccata direttamente dal Califfato.
I nostri soldati hanno avuto un altro ruolo strategico: “Quando le unità dell’Erd interrogavano prigionieri o catturavano documenti e cellulari dell’Isis, consegnavano tutto agli italiani, che lo passavano a noi. Questo permetteva di recuperare notizie di intelligence molto importanti sullo Stato islamico, inclusa l’origine dei combattenti stranieri. Un esempio? Un terrorista britannico del Daesh era stato ucciso dall’Erd, che gli ha preso il telefonino e dato agli italiani. Noi così abbiamo potuto analizzarlo, recuperare le foto e far arrivare le informazioni agli inglesi, in modo da ricostruire come questa persona era stata radicalizzata e reclutata nel Regno Unito”.
Il triangolo tra il Col Moschin e l’Erd non è avvenuto solo a Falluja ma – secondo più fonti – è proseguito fino alla caduta di Mosul e la sconfitta finale del Califfato, anche se dall’autunno 2016 le forze speciali italiane hanno intensificato soprattutto la collaborazione con i peshmerga curdi. Circola la foto di un commandos sciita a Mosul che mostra con orgoglio sulla divisa il simbolo degli incursori. Perché il rapporto con il reparto sciita era incoraggiato dalla catena di comando italiana? “Non lo so. E’ una buona domanda, ma non conosco come sia nata la collaborazione. Forse perché l’Erd era la forza di punta irachena, con cui noi americani, ma anche gli australiani, gli inglesi e altre forze occidentali, non potevamo lavorare. Non so se è stata una decisione del comandante italiano sul terreno oppure se era stata presa a Roma. Però quando noi siamo arrivati il rapporto degli italiani con l’Erd era già stato stabilito”.
L’ombra di Soleimani
Nella relazioni presentate al Parlamento ogni anno si cita l’attività di addestramento svolta in favore della discussa unità del ministero dell’Interno iracheno. Se ne parla anche nell’ultimo dossier sulle missioni estere del 2020, nonostante un reportage fotografico realizzato a Mosul avesse documentato tre anni prima torture e abusi commesse proprio dagli uomini dell’Erd. “Non ho informazioni dirette su questa vicenda, ma non ne sarei sorpreso – commenta Milburn -. Tutti ci siamo trovati a lavorare con gli iracheni; abbiamo visto unità della polizia, del ministero dell’Interno, dell’esercito, che hanno fatto cose orribili. Sarei ingenuo a sostenere che non è accaduto: può succedere sempre. Ma non possiamo mai dire che sono “affari loro” e che il fine giustifica i mezzi, purché non ci sia un nostro coinvolgimento diretto. Le mie linee guida erano: appena sentite parlare di queste cose, anche se sono soltanto accuse, le segnalate immediatamente e vi fate da parte, allontanandovi dall’unità irachena. E’ fondamentale che noi non veniamo associati a questi episodi”.
A rendere problematiche le relazioni tra eserciti occidentali e Erd c’era anche l’ombra del generale Soleimani, il regista delle operazioni segrete iraniane poi ucciso da un raid americano in Iraq due anni fa. “Non posso parlare di informazioni classificate, ma c’era sicuramente un legame fra Soleimani e il generale Sama che guidava l’Erd. Sama era un veterano delle milizie sciite filo-iraniane ma in quel momento dipendeva dal governo di Bagdad. E Soleimani aveva ordinato di non colpire gli statunitensi: “Adesso il nemico è l’Isis, il loro tempo verrà dopo””. Nonostante l’impegno comune contro il Califfato, le relazioni tra sciiti iracheni e americani erano sempre tese. Il colonnello Milburn racconta come “il buon rapporto tra gli italiani e le truppe della Erd ha salvato la mia vita e quella di diversi ufficiali americani. Eravamo andati nei dintorni di Bagdad a vedere i nostri Seals (ndr, gli incursori della Marina Usa celebri per il raid contro Bin Laden) che addestravano un gruppo di guardie irachene. Ma c’è stato un incidente e le milizie sciite ci hanno circondati. Eravamo soltanto in cinque davanti a 40 o 50 miliziani: ci puntavano le armi contro, con il colpo in canna; pensavamo ci avrebbero ammazzati. Ma il generale Sama, con cui gli italiani avevano stabilito un ottimo rapporto, ha ordinato ai miliziani di andare via e ci ha salvati. Questo è un tributo alla relazione che l’Erd aveva con gli italiani”.
La missione Nato
Oggi l’Italia si prepara a prendere la guida di tutto il contingente Nato presente in Iraq. “Ho lavorato con i vostri soldati anche in Libia e in Niger, vengono accolti dalla popolazione in modo diverso rispetto agli americani. Per noi è sempre un vantaggio contare sugli italiani. E’ un modo di mantenere un’influenza proporzionata, con una piccola forza ma molto efficace. Ha un effetto strategico, è una vittoria per tutti”.
L’efficacia della missione italiana dipende dal buon rapporto con gli sciiti? “Sì, ma io la vedo così: la relazione con l’Erd all’epoca era un male necessario. Però adesso che il Califfato è stato battuto, le milizie iraniane sono sicuramente una minaccia. Soprattutto ora, con il governo di Bagdad sempre in bilico e persino i nazionalisti di al Sadr che si sono schierati contro l’influenza iraniana. Per questo tutti dobbiamo stare molto attenti a non essere associati a truppe che favoriscono l’influenza iraniana o gli estremisti sciiti”. La collaborazione con l’Erd può trasformarsi in un pericolo? Il colonnello Milburn non può pronunciarsi: “Quando ho lasciato l’Iraq, gli italiani si erano staccati dall’Erd e lavoravano con i peshmerga curdi. Ma è sempre un rischio. La decisione sulle partnership è una scelta strategica, non va lasciata ai comandanti sul campo”.
Nella base degli incursori
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La Libia
L’ufficiale dei Marines è entusiasta degli incursori italiani: “In ottima forma fisica, svegli, intelligenti, capaci. Molto professionali; non dovevi spiegare molto, sapevano cosa fare”. E non si sono mai opposti ai suoi ordini, nonostante le differenti regole di ingaggio: “Gli italiani erano sempre molto cooperativi. Ma non si trattava di ordini, era sempre una conversazione: puoi fare questo? E la risposta era sempre positiva. Sulla carta io ero in comando, ma tutti i contingenti nazionali avevano i loro caveat”. C’era un solo limite: i droni. “Il governo italiano, per qualche ragione, aveva mandato questi ragazzi al fronte con droni pessimi, senza autonomia. Perché quando hai queste truppe molto capaci, ben addestrate, le spedisci in combattimento con un equipaggiamento di merda? Quei droni avevano un raggio d’azione di soli 10 chilometri, si rompevano sempre o venivano abbattuti, perché erano molto rumorosi e visibili. E quindi davamo agli italiani i nostri droni Puma, che avevano un raggio d’azione di gran lunga superiore”. Non si tratta di un dettaglio tecnico. “Quando eravamo nei luoghi di osservazione per designare gli obiettivi eravamo tutti esposti al fuoco dei razzi e i mortai dell’Isis. Anche se non eravamo impegnati direttamente nei combattimenti, ci voleva molto coraggio”.
Il colonnello ricorda un altro episodio in cui sono stati i nostri militari a salvargli la vita. “Nel 2011 durante l’intervento in Libia contro Gheddafi, gli aerei italiani erano tra i pochi che potevano atterrare a Tripoli per evacuare gli stranieri. Io facevo parte delle forze speciali e sono salito su un vostro aereo, uno degli ultimi a decollare dalla capitale. Ma le milizie di Gheddafi vennero a sapere che c’era un americano a bordo e circondarono il velivolo, chiedendo agli italiani di consegnarmi. L’equipaggio si rifiutò. Restammo bloccati sulla pista per cinque ore, ma alla fine il pilota italiano venne autorizzato a pagare i miliziani per lasciarci partire. E così ho potuto lasciare la Libia e di questo sarò sempre grato ai vostri uomini”.