ROMA – Adesso Mario Draghi si muove. O meglio: accetta la richiesta dei leader di maggioranza di essere ricevuti a colloquio, nel giorno in cui a Montecitorio si inizia a votare per il nuovo Presidente della Repubblica. Il premier vede Matteo Salvini ed Enrico Letta, poi Giuseppe Conte. Che li riceva davvero nella sua residenza ai Parioli, oppure in una caserma governativa, conta poco: lo fa lontano da Palazzo Chigi. Pesa invece che abbia scelto di calarsi nell’agone e ragionare di un futuro al Colle, domandando agli interlocutori: qual è la vostra volontà, quali le vostre aspettative sul mio ruolo per il Paese? Di certo, è una mossa che rimette tutto in movimento. Di buono, dal punto di vista del capo dell’esecutivo, c’è che il confronto è avviato. Di cattivo, che il dialogo non procede come sperato. E che l’asticella di Lega e Movimento sembra sempre più alta.
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L’equilibrio è precario, l’aria carica di tensione. Non potrebbe essere diversamente, visto che Draghi discute con i leader di maggioranza — da premier in carica — dell’eventualità di essere eletto al Quirinale, postazione dalla quale potrebbe poi indicare il nome del suo successore a Palazzo Chigi. È il motivo per cui Salvini tenta di fissare alcuni paletti sulla squadra e sul programma di governo, mentre Draghi reagisce bloccando le richieste del leghista con un argomento che suona più o meno così: non potete chiedermi cose che non posso garantire. Non può disegnare adesso un nuovo esecutivo, non glielo consente la Costituzione. E non lo permette neanche la politica, visto che il dettaglio di un eventuale governo richiederebbe troppo tempo e pregiudicherebbe la corsa del premier. Lo stesso vale ovviamente per l’agenda dell’esecutivo, che per il Presidente del Consiglio è già fissata.Si può sintetizzare con un titolo — “attuazione del Pnrr” — e risponde agli impegni assunti con Bruxelles.
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A dire il vero, il colloquio con Salvini non va bene anche perché il leader del Carroccio si presenta con una posizione assai rigida. Tanto da premettere una frase che suona parecchio minacciosa: “Presidente, se anche dovesse essere eletto al Quirinale, non pensi che il mio partito possa sostenere un governo guidato daFrancooCartabia…”. Ha in mente altro, Salvini. Un esecutivo con dentro i leader, la casella del Viminale alla Lega e la defenestrazione diLuciana Lamorgese. Tutto per poter sostenere una campagna elettorale lunga mesi e non pagare un prezzo troppo alto alla scelta diGiorgia Melonidi restare all’opposizione.
Qui termina il “detto” tra i due. Esiste però un gigantesco “non detto”, o comunque non pienamente esplicitato nei colloqui. Draghi non intende restare a Palazzo Chigi a qualsiasi costo. Non significa che si dimetterebbe in caso di elezione di un Capo dello Stato diverso da se stesso. Continuerebbe a governare, ma senza accettare logoranti mediazioni: spingendo al massimo sui provvedimenti, restando al suo posto solo per produrre soluzioni, togliendo il disturbo in caso di ostilità manifesta dei partiti. E d’altra parte, Draghi è stato chiamato da Sergio Mattarella e soltanto Sergio Mattarella può garantire il mandato conferito undici mesi fa.
Certo, la tattica di Salvini serve anche ad alzare il prezzo. Questo significa che è sempre possibile ricomporre il quadro. “Se si parlano è positivo”, dice Giancarlo Giorgetti. Certo, gli ostacoli non mancano: c’è da imbarcare nell’operazione Silvio Berlusconi, che il premier può solo raggiungere al telefono. E c’è da superare i veti di Forza Italia: “Solo Draghi — dice Antonio Tajani — può tenere unito questo governo”. Gli scricchiolii, insomma, non mancano. Conte, per dire, gioca una partita ancora poco chiara. Mentre Luigi Di Maio continua a promettere al premier il voto favorevole di almeno 80 grandi elettori 5S, l’avvocato si mostra freddo con Draghi. Non sembra solo tattica: la minaccia di rimettersi al giudizio degli iscritti per l’eventuale sostegno ad un altro esecutivo punta a far traballare l’ex banchiere. “I cittadini hanno bisogno di certezze”, dice Stefano Patuanelli chiedendo al premier di restare al suo posto.
Draghi sa di poter contare su Enrico Letta, questo almeno sembra un punto fermo. Ma anche tra i dem c’è chi spinge decisamente per il bis di Mattarella. Capofila del dissenso all’“operazione Draghi” è Dario Franceschini. Ieri se ne è avuta conferma quando Letta l’ha incrociato in Transatlantico riservandogli un eloquente gesto di disapprovazione.
Sullo sfondo ci sarebbe il resto: i venti di guerra in Ucraina e l’agitazione dei mercati. Le Borse europee pagano un prezzo pesante, quella di Milano perde il 4,02%. A sera, Draghi riceve la chiamata di Joe Biden proprio sulla crisi di Kiev. Ecco, anche questo scenario incide sull’atteggiamento che terrà il capo dell’esecutivo nei prossimi giorni. Vorrebbe chiudere al più presto la partita, possibilmente al terzo scrutinio, o comunque poco dopo. Di certo non si farà trascinare in un ping pong devastante tra partiti, perché non ha voglia di sottoporsi a un doloroso logoramento. E poi, c’è un Paese da governare. Tanto che a sera, nel Pd, si diffonde il timore che senza una rapida soluzione — presumibilmente nelle prossime 24-36 ore — l’ex banchiere possa addirittura meditare un clamoroso ritiro dalla corsa quirinalizia.