Draghi: non è salito al Colle, ora può riformare il Paese
Sarebbe molto ingeneroso collocare Mario Draghi tra gli sconfitti della corrida intorno al Quirinale. In primo luogo per la statura dell’uomo, che resta la personalità pubblica di maggior spicco in grado di rappresentare al meglio gli interessi dell’Italia in Europa e nel mondo, attraverso una fedeltà di fondo ai valori dell’occidente. E poi perché è un errore raffigurare l’elezione del presidente della Repubblica come una specie di campionato in cui il governo è la semifinale e il Colle è la finalissima. Non è così, come sa chiunque conosca la Costituzione. I poteri del capo dello Stato sono rilevanti, ma tipici di una repubblica parlamentare; viceversa è da Palazzo Chigi che si governa un Paese che ha urgente bisogno di una mano ferma. S’intende che Draghi avrebbe desiderato servire le istituzioni dal Quirinale, come fece capire nella conferenza stampa pre-natalizia. Quella dichiarata disponibilità gli è stata rimproverata, invece fu un contributo alla chiarezza. Ciò che è accaduto in seguito dimostra che il nostro sistema politico ha necessità di essere riformato nel profondo: anche attraverso l’elezione diretta del capo dello Stato, nella convinzione che occorre riassestare tutto l’equilibrio dei poteri. È un compito che spetta al governo e alle forze politiche, come nella Francia del 1958 che aveva richiamato De Gaulle. Se volesse, Draghi potrebbe caricarsi sulle spalle questa responsabilità, al di là quindi del Next Generation. Vorrebbe dire guardare anche oltre il 2023 e avviare il rinnovamento del Paese.
I RISULTATI DELL’OTTAVA VOTAZIONE
Salvini: ha trasformato la sua occasione in una grande catastrofe
È aperto il dibattito su chi sia il vero vincitore della partita Quirinale, ma c’è l’unanimità sul nome dello sconfitto numero uno: Matteo Salvini ha trasformato la sua grande occasione per assumere il comando strategico del centrodestra in una catastrofe che straccia anche il record di Bersani del 2013. Fino alla vigilia del voto aveva davanti a sé un ostacolo grande come una villa in Costa Smeralda, l’autocandidatura di Silvio Berlusconi. Ma quando l’ex Cavaliere s’è fatto da parte, la strada sembrava spianata. Salvini s’è seduto al tavolo con la baldanza di chi ha, se non un poker, un full d’assi. Ha avvertito che “il centrodestra per la prima volta dopo 30 anni ha i numeri”, ha annunciato candidature “di altissimo profilo” e ha garantito che Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia avrebbero votato “compatti dall’inizio alla fine”. È stato allora che è cominciato il disastro. Prima la rosa dei tre nomi mai messi davvero in campo, poi le trattative segrete con Conte, quindi la spallata fallita mandando allo sbaraglio la presidente del Senato e infine il pasticcio Belloni. L’ex Capitano ha platealmente dimostrato di non essere né temibile né affidabile, rivelando di avere in mano solo cinque carte spaiate. Era un bluff, giocato pure male. Si capisce che prima Berlusconi e poi Meloni si siano velocemente sganciati, mentre il treno del Quirinale finiva la sua corsa nella stazione di partenza. Così Mattarella farà, a furor di Parlamento, un bis che nessuno chiederà mai più a Salvini.
L’album fotografico della della corsa sgangherata al Quirinale tra ridda, taranta e manfrina. Poi San Sergio
di Filippo Ceccarelli 29 Gennaio 2022
Letta: nel taccuino aveva due nomi, uno è andato a dama
Nell’intervista di fine dicembre a Repubblica nella quale ruppe il silenzio sul Quirinale, Enrico Letta disse che l’obiettivo primario era tutelare Mario Draghi. Tutelarlo sia che fosse eletto al Colle sia che restasse a Palazzo Chigi. Significava, per il segretario del Pd, spendersi per assecondare l’ambizione di Draghi o, in alternativa, assicurarsi l’elezione di un capo dello Stato che non mettesse a rischio la tenuta del governo. E chi più di Mattarella? In sostanza, a dispetto delle rose più ampie, nel taccuino di Letta ci sono sempre stati solo due nomi in cima: Draghi e Mattarella. Sul primo è andata male, sul secondo no. Letta ha giocato di rimessa, lasciandosi scivolare le critiche sulla mancanza di iniziativa del Pd. Ha lasciato che restasse in mano a chi l’ha esercitata solo per bruciare nomi o provare azzardi. Ha pesato, ovviamente, in questa tattica la divergenza su Draghi con Conte. Ecco, se una scia negativa resta incollata all’ex premier, è il rapporto con il capo 5S. Letta ha evitato di enfatizzare le divergenze, ma i due hanno giocato dall’inizio alla fine una partita contrapposta, fino al fallito blitz finale di Conte su Belloni, a braccetto con Salvini. Se il Quirinale doveva essere il banco di prova della nuova coalizione progressista in vista delle elezioni, il test è inquietante. Anche per questo Letta si è schierato ieri per il proporzionale che, per uno come lui, è quasi una bestemmia in chiesa. Ma presentarsi agli elettori con questa finta alleanza sarebbe un grave handicap.
Meloni: falliti tutti gli obiettivi, l’unico merito è la coerenza
Può rivendicare la coerenza Giorgia Meloni. Ha tenuto la stessa posizione dall’inizio alla fine della partita e di questo le va dato atto. Ma è una posizione che è risultata perdente. Su tutta la linea. I suoi obiettivi iniziali erano portare Draghi alla presidenza della Repubblica, far cadere il governo e andare al voto anticipato, tenendo il centrodestra unito. Il primo è fallito e il secondo pure, almeno per ora. Quanto al centrodestra è stata lei stessa ieri a decretarne la fine: “Non esiste più, è da rifondare”. Certo la leader della destra non porta tutte le colpe dell’esplosione della coalizione, anzi. La gestione in stile Papeete di Matteo Salvini ha fatto il grosso. Ma nelle interminabili giornate di trattativa le mosse del Capitano (che vive nel terrore che lei possa soffiargli voti e leadership), sono state sempre condizionate dal pressing dell’alleata. È stata soprattutto Giorgia, la mujer, la madre cristiana, anima nera della coalizione, a insistere fino a venerdì scorso su candidati di centrodestra e non super partes, a volere a tutti i costi la prova di forza e non una soluzione condivisa. Al punto di mandare Elisabetta Casellati verso un prevedibile massacro. “Siamo ottimisti, bisogna misurarsi e combattere” diceva prima del disastroso esito. Infine ha giocato la carta Belloni, sapendo che per il Pd non era digeribile. Ora ha sfidato anche Mattarella. Ma stavolta forse ha fatto male i conti: non è detto che il suo no ad un presidente così popolare le porti consensi nelle urne.
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di Tommaso Ciriaco 29 Gennaio 2022
Conte: il primo a proporre una donna poi si è perso per strada
Aveva qualche buona mano da giocare Giuseppe Conte. Avendo governato prima con la Lega e poi con il Pd, non sarebbe stato difficile immaginare un suo ruolo da pivot, baricentrico tra i due poli. Eppure, forse per la scarsa dimestichezza con il ruolo di capo politico, forse per inesperienza, l’ex premier è sembrato sempre un passo indietro rispetto agli altri. La sua mossa d’apertura è stata perfetta: una donna presidente! Idea semplice, persino banale, ma è stato il primo ad avanzarla. Purtroppo poi si è un po’ perso per strada, quando invece avrebbe potuto porla come una vera pregiudiziale e tutti gli altri sarebbe stati costretti a inseguirlo. L’unica candidatura femminile che avrebbe potuto trovare un consenso trasversale era quella di Marta Cartabia. Sulla Guardasigilli c’era il sì del Pd, dei centristi e anche di Salvini, Il problema è Conte non sarebbe riuscito a farla ingoiare ai suoi cinque stelle. Qualcosa comunque l’avvocato ha ottenuto. Il suo principale obiettivo è sempre stato quello di ostacolare l’ascesa di Draghi al Quirinale e su questo, a riprova che per il Colle valgono più i veti che i voti, ha avuto successo. Per il resto, si ritrova a guidare una forza politica lacerata, a un passo dalla scissione di Luigi Di Maio. Il rapporto con Enrico Letta si è logorato. E ora Conte ha davanti a sé una lunga traversata del deserto fino alle elezioni. Reggerà ancora un anno?
Berlusconi: sconfitto dalla sua vanità e dalle bugie dell’entourage
Dal suo letto d’ospedale sicuramente rivendicherà a suo merito la rielezione di Mattarella. Ugualmente avrebbe rivendicato l’elezione di Draghi, di Casini, di Casellati, di Putin, di Batman, di chiunque. Perché non potendo più essere il Primo Populista d’Italia, l’unto dal Signore, il Caimano, si è ritagliato il ruolo senile di Padre della Patria, incurante del fatto che una buona metà della Patria, piuttosto che averlo come padre, preferirebbe scappare di casa.
Il rischio era che l’età, e la fragilità connessa, gli attirassero simpatie immeritate. Fortunatamente non è accaduto, a cominciare dal suo campo, il centrodestra, che pur avendo tardato assai a liberarsi della sua ingombrante auto-candidatura non ha mai mostrato la benché minima intenzione di combattere, nel suo nome, una battaglia che sarebbe stata già persa in partenza. Berlusconi è, in questa pagina della storia politica italiana, il primo degli sconfitti. Si era candidato per vanità, per avere perduto le coordinate della Storia, e per la colpevole complicità del suo entourage, incapace di dirgli la verità. Ma sicuramente (per vanità, e per avere perduto le coordinate della Storia) se la giocherà da vincitore, vantando la sua bocciatura, e perfino il tradimento dei suoi alleati, come suo generoso passo indietro, e l’esito del voto come una sua geniale intuizione. L’egotismo non ha antidoti. Il voto, come sempre, è: ingiudicabile.
Renzi: stavolta non è stato king-maker, ha solo sventato gli inciuci
Ha il bel merito di avere svelato e sventato l’inciucio disperato di Salvini e Conte che, maltrattando Elisabetta Belloni, stavano goffamente provando a far saltare il banco e riportare l’Italia al Conte giallo verde, che è stato “il peggiore” di tutti i Conte che via via hanno tradito Conte, benché sia difficile dire che, tra i tanti, ce n’è stato uno “migliore”. Dobbiamo comunque gratitudine a Matteo Renzi, anche se, per scoprire l’imbroglio, ha troppo gridato e, come un temporale, ha tuonato al colpo di mano, non di due aspiranti furbacchioni con l’acqua alla gola, ma nientemeno dei Servizi Segreti, come fosse un Dibattista (di centro). Bighellando e ciondolando, Renzi ha pure sancito una prima, piccola pace con “Enrico stai sereno” e chissà se è vero che, finalmente entrando nel suo “campo largo”, gli ha detto da toscanaccio a toscanuccio: “‘Un te n’avere a male, eh?”. Di sicuro, non si è fatto sedurre dalla destra, come avrebbero voluto i troppi nemici che soprattutto a sinistra si è fatto, con quel caratterino. Ha infatti capito subito che lo scoiattolo di Berlusconi era un’ossessione nostra e una miseria sua. E che dunque Elisabetta Casellati avrebbe fatto, come poi ha fatto, quella brutta figura che a Berlusconi era stata evitata. Non è invece riuscito a diventare il king maker, il regista, e meno male che stavolta non l’ha azzeccata, visto che cavalcava Pierferdinando Casini come una strega cavalca una scopa.
Di Maio: tempismo e nervi saldi, ha imparato la vera politica
Nel naufragio del ceto politico – che non si misura dal risultato, ma dal modo sconfortante con cui vi si è arrivati – Luigi Di Maio si colloca abbastanza nettamente fra i salvati, non fra i sommersi. È stato sostenitore dello spostamento di Draghi al Quirinale, in un’ottica di stabilizzazione del sistema e di rassicurazione delle inquietudini che si sono affacciate all’orizzonte internazionale; ha tenuto testa alla destra, senza strepiti; e si è reso indipendente anche dalle scelte di Conte – in teoria il suo capo politico – a proposito della candidatura di Elisabetta Belloni, prospettata dal leader del M5S e da Salvini, benché della collaborazione dell’ambasciatrice si sia avvalso, con profitto, come ministro degli Esteri. E si è così trovato dalla parte giusta quando si è compreso che solo un Mattarella-bis avrebbe potuto rimettere in sesto il carro della politica, impantanato nella propria impotenza. È giovane, sapeva poco quando, la scorsa legislatura, è entrato in Parlamento, ma ha imparato presto le leggi non scritte degli equilibri politici, e sa muoversi con passo felpato tra molti poteri. Ha tempismo e nervi saldi, che lo accreditano come possibile erede della più scaltra politica democristiana.