ODESSA – Chiamare le cose col loro nome, in tempo di guerra, non è mai scontato. Il governo di Zelensky sta cercando di convincere il Paese che l’evacuazione dei difensori di Mariupol dall’acciaieria non sia una sconfitta bensì l’esito, inevitabile, di una missione compiuta. “La loro resistenza – è il messaggio a reti unificate di ministri e generali ucraini che non usano mai la parola “resa” – è servita ad alleggerire la pressione su Kiev e a bloccare l’avanzata di 20 mila invasori verso Zaporizhzhia e nella regione Donetsk, consentendo al nostro esercito di riassettarsi e ricevere le armi dell’Occidente”. È senza dubbio vero. La gente d’Ucraina, però, sa che i suoi eroi, muti e feriti, in queste ore salgono su pullman che vanno dritti nelle mani di Putin. La capitolazione dell’Azovstal è vissuta come un dramma nazionale.
Lo si percepisce pure nell’imperturbabile Odessa, il porto del Sud dove i ristoranti sono pieni e i negozi aperti nonostante le sirene anti-aereo, i missili che piovono fuori città e il fronte di Mykolayiv a due ore e mezzo di macchina. Nel centro di raccolta di cibo e aiuti per la Difesa territoriale, il volontario Olexander, 32 anni, scorre sul telefonino le notizie. Salta quelle ufficiali del governo, sorvola anche sugli otto missili che nella notte di lunedì hanno devastato la ferrovia e alcune postazioni militari vicino a Leopoli, si sofferma sulle foto e i video pubblicati dai media russi. “Li hanno fatti arrendere…”, sussurra. Si commuove, la voce si incrina. “Finché Azovstal resisteva, ci dicevamo tra noi che Mariupol non era ancora russa, che c’era una speranza. Leggo che lasceranno tornare i nostri soldati dopo uno scambio di prigionieri. Ma come si fa a fidarsi di Putin?”.
Zelensky si è fidato, non aveva altra scelta. La trattativa con il Cremlino è stata gestita dalla vice-premier Iryna Verenshchuk, ma è stato il presidente in persona a dare l’autorizzazione finale. “Siamo stati costretti, non c’era altro modo per salvarli”, ammette la viceministra della Difesa Hanna Mailar. Circondati, isolati e in condizioni sanitarie disumane, i resistenti sono asserragliati nei tunnel dell’impianto di fabbricazione sovietica, ultimo lembo d’Ucraina libera nella città martire. “Gli 83 giorni della difesa di Mariupol passeranno alla storia come le Termopili del XXI secolo”, scrive su Twitter il consigliere presidenziale ucraino Mikhailo Podolyak.
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Tra i combattenti dell’Azovstal (circa 600, ma la stima va presa con le molle) ci sono marine della 36ma Brigata, poliziotti, doganieri, volontari della Difesa territoriale e il famigerato Reggimento Azov, nemico numero uno dei separatisti filorussi. “Questa è solo la prima fase del salvataggio, l’operazione durerà fino al loro ritorno dal territorio non controllato dall’Ucraina”. Sempre che Putin, che ora tiene in ostaggio non soltanto dei prigionieri di guerra ma prigionieri considerati eroi dell’Ucraina, non decida di tenerseli per usarli poi come merce di scambio sul tavolo del negoziato.
L’evacuazione pare essere ancora in corso. Un altro convoglio di otto pullman cui faceva da apripista un mezzo blindato con la zeta bianca sulla corazza è stato visto ieri partire dall’acciaieria. A bordo c’erano uomini stanchi che non sembravano feriti. Come nel caso del primo gruppo di lunedì, la destinazione finale è la Repubblica separatista di Donetsk. “Probabilmente sono militanti arresi dell’Azovstal”, scrivono le agenzie stampa russe. Kiev non conferma. Si rimane dunque alle cifre ufficiali di lunedì: 264 militari trasferiti, tra cui 53 feriti gravi, nelle città di Novoazovsk e Olenivka. Quanti ne restino nell’acciaieria non è chiaro. Nessuno fornisce cifre, nessuno commenta. Nessuno, a Kiev, ha voglia di parlare di resa.
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