L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto stamattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. Lo ha reso noto il vice sindaco di Nusco, Walter Vigilante. De Mita era stato sottoposto a febbraio scorso ad un intervento chirurgico per la frattura di un femore a seguito di una caduta in casa. Aveva 94 anni e attualmente era sindaco di Nusco, il suo paese.
C’è stato un tempo, sul finire degli anni Ottanta, in cui De Mita è stato contemporaneamente segretario della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio: praticamente l’uomo più potente d’Italia.
Esponente della corrente di sinistra, veniva dalla provincia profonda. Nato in un paesino di montagna dell’alta Irpinia, Nusco, la sua Macondo, figlio di un sarto, dopo il liceo si trasferì a Milano, alla Cattolica (1949-1953), in un tempo in cui l’ascensore sociale funzionava. Eletto per la prima volta alla Camera nel 1963 vi rimase per trent’anni di fila. Avellino aveva già un leader, Florentino Sullo – un democristiano di raro coraggio che aveva sfidato i palazzinari – De Mita lo sconfisse e ne prese il posto. Nel 1969 divenne vicesegretario della Dc, quattro anni dopo per la prima volta ministro, all’Industria.
La politica allora era una cosa pazzesca. Si dividevano i buoni e i cattivi in base all’ideologia. C’erano i partiti di massa separati al loro interno in un groviglio di infinite correnti. Si tenevano congressi con migliaia di delegati che duravano giorni. Milioni di italiani avevano la tessera in tasca. La Dc dominava tutto: dal parastato alla Rai. Il Popolo, il suo quotidiano, nel 1982 costava 4 miliardi e 800 milioni di lire, e ne incassava 702 milioni.
De Mita la sintetizzò così durante una visita in Guatemala: “Un partito di centro con una grande rappresentanza popolare. Sul piano economico siamo per il libero mercato e la libera iniziativa. Ma quando questo tocca gli interessi popolari c’è l’intervento equilibratore del governo”. La definizione è riportata in Piazza del Gesù, il diario compilato dal suo portavoce, Giuseppe Sangiorgi.
L’Avellino di Juary giocava in serie A: dieci campionati di fila, dal 1978 al 1988, che coincideranno quasi per intero con il potere demitiano. Quando divenne il segretario della Dc, il 6 maggio 1982, metà città si riversò a Roma per festeggiarlo, ci si faceva raccomandare persino per poter giocare a tressette con lui. Nacque la corrente detta degli avellinesi: Nicola Mancino (poi presidente del Senato), Gerardo Bianco, Giuseppe Gargani, a cui si aggiungerà da Benevento, Clemente Mastella, il giovane responsabile dell’informazione. Era l’improvvisa rivincita della provincia contro la capitale, Napoli.
Rimase leader del partito per sette anni, fino al 1989, e per un anno pure capo del governo, mentre scorreva una stagione selvaggia, opulenta e crudele. Il Paese rinasceva dopo il buio del terrorismo e scalò le posizioni al punto da diventare la sesta potenza del mondo.
La parola chiave del suo settennato fu rinnovamento. La Dc del dopo Moro non ritrovava il suo centro, perdeva peso, fiaccata dal malaffare, pesava lo scandalo della P2. Nel 1981 il segretario del Pci Enrico Berlinguer aveva rilasciato a Eugenio Scalfari la sua famosa denuncia sulla questione morale. De Mita reagì. Allevò una nuova classe dirigente, da Sergio Mattarella a Mino Martinazzoli, da Pierluigi Castagnetti a Giovanni Goria (che sarà premier). Grazie a questo sostegno Leoluca Orlando diventò sindaco di Palermo, nell’85, l’alfiere della primavera siciliana.
Riuscirà questo rinnovamento? Fino a un certo punto. A un certo punto la politica perse slancio, fu tutto duellare con Bettino Craxi, il leader del Partito socialista, a palazzo Chigi dal 1983 al 1987. Antonio Ghirelli, il portavoce di Pertini, li descrisse così: “Non potrebbero essere più diversi: cittadino, post-moderno, mondano Craxi; provinciale, tradizionale, familiare De Mita”. De Mita dialogava col Pci sulle riforme istituzionali, da cui la Commissione Bozzi (1983), e insieme ai comunisti scelse Francesco Cossiga presidente della Repubblica, eletto al primo scrutinio il 24 giugno 1985.
Come tanti politici dell’epoca parlava una lingua spesso incomprensibile ai profani. Gianni Agnelli lo bollò perciò come un intellettuale della Magna Grecia. De Mita si prese una rivincita una domenica pomeriggio al Comunale di Torino, quando, seduto in tribuna accanto all’Avvocato, assistette alla clamorosa rimonta dell’Avellino contro la Juve: da 0-3 a 3-3. Era permalosissimo. Indro Montanelli, che lo criticò ferocemente più volte, fu pure querelato, venne accolto con un “Piacere, Cutolo!”, quando si ritrovarono faccia a faccia per un’intervista.
Ha scritto di lui Marco Follini: “De Mita fu il più concreto e insieme il più astratto tra gli ultimi leader democristiani. Parlava a braccio, a volte senza un riga di appunti, volando alto e seguendo il filo di ragionamenti che potevano apparire fin troppi concettosi e immaginifici. E poi planava sulla realtà prosaica della quotidianità di quel sottosuolo locale e amicale da cui ogni leader politica trae la sua forza”. Follini negli anni Settanta fece il suo primo discorso al consiglio nazionale dc, “di rara pochezza”, ammetterà poi nel suo libro Democrazia cristiana. Sulle scale s’imbatté in De Mita: “Prima di sentirti parlare non ti conoscevo. Ma devo dire che anche dopo averti sentito parlare continuo a non conoscerti”.
Con Ciriaco De Mita muore insomma l’ultimo grande protagonista della Prima Repubblica, il simbolo degli anni Ottanta, un’epoca a cui oggi si è tentati di guardare con crescente indulgenza.