Anniversari. Perché il 2 giugno merita di essere una vera festa

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E’ una data fondativa, una delle più importanti del nostro calendario civile. Ma il 2 giugno non è riuscito mai a decollare come grande festa popolare, come pure fu nell’immediato dopoguerra. E come avviene in altri paesi per celebrazioni di analoga importanza, il 14 luglio in Francia o il 4 luglio negli Stati Uniti, tra balli in piazza e fuochi d’artificio. Da noi, al di là della parata militare e del brivido delle frecce tricolori, il giorno della Repubblica stenta a farsi rituale vivo nella comunità. Lo rivela anche una recente indagine nelle scuole. Sollecitati da un’équipe di storici, molti studenti prossimi alla maturità classica hanno liquidato l’anniversario repubblicano come il primo ponte verso l’estate. O comunque l’inizio delle vacanze. Niente più di questo.

Quanti sanno che cosa è accaduto tra il 2 e il 3 giugno del 1946, data del referendum istituzionale e punto di partenza del processo di costruzione della democrazia italiana con l’elezione dell’assemblea costituente? Quanti conoscono quel “miracolo della ragione” (copyright Piero Calamandrei) per il quale “una Repubblica è stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re”? Dei nostri vuoti di memoria si è occupata l’Associazione di Public History nella conferenza annuale promossa al Museo del Novecento di Mestre. Sin dalla titolazione, “Storia bene comune”, l’iniziativa ha tratto ispirazione dal manifesto scritto per Repubblica nel 2019 da Andrea Giardina e firmato da Liliana Segre e Andrea Camilleri dopo la soppressione del tema storico alla maturità.

Chi sono i responsabili di questa nostra diffusa smemoratezza? Non si è trattato di un vero processo contro i colpevoli, ma certo sono emerse molte connivenze e complicità. A cominciare da quelle degli storici che hanno raccontato il parto repubblicano in modo approssimativo e distorto. Per porre riparo a una storia mal narrata, Maurizio Ridolfi ha coordinato un progetto in sei volumi edito da Viella, 2 giugno. Nascita, storia e memorie della Repubblica. “La nostra nuova indagine”, dice Ridolfi, “nasce proprio dalla consapevolezza che molti studiosi avevano trattato questa data fondativa in modo inadeguato. Prendiamo i manuali scolastici: generalmente liquidano il 2 giugno in cinque righe e restituiscono una visione molto semplificata dell’origine della Repubblica, nata malamente in un’Italia spaccata in due e con una debole legittimazione popolare”.

L’opera di Viella approfondisce aspetti del voto referendario finora trascurati, a partire dal rapporto con la demografia. “Quel referendum disse altro rispetto alle narrazioni dei libri di testo”, continua Ridolfi. “Bastano solo due cifre per mutare l’immagine di un’Italia settentrionale interamente proiettata verso la Repubblica e un’Italia meridionale interamente monarchica: il 40 per cento degli italiani che votarono per il re viveva tra Torino, Milano e Padova. E il 20 per cento dei voti repubblicani era concentrato nel Meridione: quel venti per cento fu decisivo! La fotografia dell’atto fondativo ne risulta profondamente modificata: la Repubblica fu il frutto di diversità legate alla storia e alle differenti culture politiche ereditate dal primo dopoguerra, ma esisteva una prospettiva comune che mirava a creare qualcosa di nuovo. Se si cancella questa comunione di intenti, si finisce per indebolire l’immagine del 2 giugno come importante festa nazionale”.

Dunque la fragile memoria repubblicana nasce da qui, da una storia sbagliata. Con conseguenze anche sul calendario civile, sempre più febbricitante e confuso. Per Filippo Focardi, autore di molti libri sulle nostre improvvide amnesie e direttore scientifico dell’Istituto Parri, “c’è una relazione tra la debolezza della festa del 2 giugno e la bulimia legislativa del Parlamento rispetto alle giornate memoriali”. L’ultimo caso riguarda la festa degli alpini, collocata il 26 gennaio a ridosso del giorno dedicato alla Shoah, e per di più coincidente con la battaglia di Nikolaevka sul fronte russo vinta nel 1943 dall’Italia fascista. Non c’è il rischio di mescolare accadimenti storici di segno civile contrario? “I nostri parlamentari sono legittimati a riscrivere i patti memoriali, ma questa bulimia spesso nasconde la debolezza dello Stato, incapace di scegliere da che parte stare. Non è un caso che prevalga quello che Giovanni De Luna ha definito un paradigma vittimario: generalmente si preferisce ricordare le vittime, che poi vengono scelte tra gli italiani, mentre si escludono le vittime fatte dagli italiani”.

Curioso un paese che sceglie di piangere le vittime e non di celebrare i successi, quali invece furono la Repubblica e la carta costituzionale che comincia a nascere il 2 giugno del 1946, con l’elezione dell’assemblea costituente. “Non siamo più capaci di raccontare le vittorie”, dice Anna Mastromarino, studiosa di diritto costituzionale. “I nostri costituenti non sono morti per la Costituzione, sono rimasti vivi per costruirla e difenderla. E questo evidentemente è un problema per uno Stato debole che negli ultimi decenni ha preferito celebrare i più deboli, le vittime appunto”. Qui entra in gioco anche il nostro rapporto con la Costituzione. Sempre Calamandrei diceva ai ragazzi che la Carta non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, ossia l’impegno e la responsabilità. Ma quanti studenti conoscono “la carta della nostra dignità?”.

“In Italia la Costituzione ha smesso di farsi ritualità collettiva”, dice Mastromarino. “Oggi s’è rotto il rapporto tra logos e mito: sopravvive il mito – la Costituzione più bella del mondo – ma non è più capace di farsi discorso quotidiano. Naturalmente le attribuisco una responsabilità che non è sua, piuttosto dei poteri pubblici: solo loro che non sono stati capaci di far parlare la Costituzione”. Nonostante il lavoro immane del presidente Mattarella e dei giudici della Corte costituzionale, tra gli italiani sopravvive per la Carta un rispetto formale che però non si traduce in un sentimento collettivo profondo.

Come rendere più popolare la festa del 2 giugno? Gli studiosi concordano nella necessità di coinvolgere di più il vissuto delle persone, nei comuni e nei singoli territori, oltre che a scuola. Va bene la parata militare a Roma, ma occorre rendere vivo l’anniversario nelle singole comunità, come accade in altri paesi. Sulle testimonianze delle donne ha lavorato molto Patrizia Gabrielli, valorizzandone il contributo fondamentale all’invenzione della democrazia. “Per avvicinarci ai ragazzi bisogna ricorrere a linguaggi nuovi come la danza o il teatro civile, nutriti dall’esperienza delle generazioni che ci hanno preceduto. La storia è un bene comune che non si tutela più soltanto con i libri di testo”. Bisogna prenderne atto, prima che sia troppo tardi. E il 2 giugno diventi solo un weekend lungo, allietato da suggestive scie tricolori nei cieli d’Italia.

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