Telefonate, vertici e bugie poi Draghi molla: “La palla è al Quirinale”

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Si potrebbe partire dal finale di giornata, ha valore simbolico. Nel tardo pomeriggio, mentre al Senato va in scena la conta sulla fiducia, Mario Draghi e Sergio Mattarella concordano di spostare a oggi la salita del presidente del Consiglio al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Non è una scelta dilatoria, la premessa di un improbabile colpo di scena, è la meditata volontà di lasciare che l’ultima istantanea di una delle giornate più surreali della storia della politica italiana resti fissata sui responsabili della caduta del governo: Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi, in ordine di apparizione sulla scena della crisi.

Le dimissioni di Draghi

Draghi si dimetterà stamattina al Colle dopo aver parlato alla Camera, ma senza seguire il dibattito, e dopo aver riunito il Consiglio dei ministri. Resterà in carica fino alle elezioni, si capirà dopo il passaggio da Mattarella con quali poteri. E anche con quali ministri, perché questa è pure la prima crisi di ogni tempo in cui i ministri espressi dai partiti che non votano la fiducia restano al loro posto come nulla fosse. Di sicuro, il presidente Consiglio non è sfiduciato. Può essere la base per un estremo tentativo di ricomposizione della maggioranza? Difficile, quasi impossibile, la notte non sempre porta consiglio. “La palla è a Mattarella”, è l’ultimo sussurro da Palazzo Chigi prima di spegnere le luci.

Il volto livido di Draghi

Due istantanee invece rendono bene le ore vissute ieri da Draghi. La prima: il suo volto livido, teso come mai altre volte in occasioni pubbliche, con il quale poco prima delle 17 ha pronunciato la breve replica al dibattito dell’aula di Palazzo Madama. La seconda: il sorriso disteso, non forzato, con il quale ha salutato alcuni cittadini quando è uscito dal Senato un paio d’ore più tardi. Lo si potrebbe definire quasi un moto di sollievo. La richiesta alle senatrici e ai senatori di votare la fiducia sulla risoluzione di Pierferdinando Casini, l’unica che, se approvata, avrebbe garantito la prosecuzione del suo governo, non nascondeva speranze di successo.

Lo strappo della Lega

A Draghi era chiaro dalla mattina, dopo l’intervento del capogruppo leghista Massimiliano Romeo, che non era aria di ripartenza. Questo non significa che non abbia provato a muoversi. Ha cercato più volte al telefono Berlusconi. Il solo che avrebbe potuto frenare l’ansia di Salvini di tornare al voto e al Viminale. Non glielo hanno passato. “Il presidente non può rispondere”. “Il presidente è un attimo impegnato”. Lì il premier ha capito che la partita era chiusa. Decide Licia Ronzulli chi parla con Berlusconi. E Ronzulli decide con Salvini. Durante la pausa dei lavori del Senato, due ore di frenetici contatti dopo l’ora del pranzo degli italiani, si è consumata l’ultima possibilità di una soluzione. Enrico Letta e Roberto Speranza hanno cercato di riportare a bordo Giuseppe Conte. Anzi, erano convinti di esserci riusciti dopo averlo incontrato, uno spiffero di ottimismo è arrivato anche all’orecchio di Draghi. Ma nel frattempo Salvini resisteva anche al pressing del Quirinale. E Berlusconi? Finalmente c’è un colloquio telefonico. Ma forse, per Draghi, sarebbe stato meglio continuare a trovare occupato.All’ora della sua replica Draghi sa bene che non c’è più alcun margine per ripartire. Infatti le poche gelide parole spese in quel momento servono solo a replicare duramente alle critiche ricevute dentro e fuori l’aula. La stoccata a Giorgia Meloni, l’aspirante presidente del Consiglio amica e ammiratrice dell’ungherese Viktor Orbàn, che accusava lui di chiedere “pieni poteri”. La bordata ai 5S sul superbonus: avete scritto una norma pasticciata, è stato il senso, avete messo voi in crisi le aziende sui crediti. Accuse ancora meno diplomatiche di quelle già ruvide del discorso del mattino, dove i fendenti più tesi erano stati rivolti alla Lega, rimproverata di fomentare le rivolte di piazza contro il governo. 

La risoluzione Casini

Quella richiesta di voto sul testo formulato da Casini, già rivale nella corsa al Colle, è servita a verbalizzare l’identità dei partiti che hanno deciso di portare il Paese al voto in autunno. Draghi se la sarebbe anche risparmiata, il Quirinale la considerava un passaggio doveroso della parlamentarizzazione della crisi. Occorreva che il gioco del cerino, il teatrino di M5S e Lega che per tutto il giorno si sono marcati in aula per provare a rimpallarsi la colpa del patatrac, noi votiamo la fiducia ma se non ci sono quelli, noi la votiamo se quelli non chiedono che non ci siamo noi, si concludesse con una assunzione di responsabilità formale. Poi, nemmeno all’atto finale i partiti in uscita hanno scelto una strada dritta: presenti in aula ma non votanti i grillini, fuori dall’aula il centrodestra.Letta, il leader più vicino a Draghi dall’inizio alla fine della crisi, ha sperato nel colpaccio: se Conte avesse votato la risoluzione Casini forse non sarebbe bastato a tenere in vita il governo, ma avrebbe lasciato uno spiraglio all’alleanza per fronteggiare alle elezioni la destra unita, che farà un solo boccone della gran parte dei collegi uninominali. “È un calcio di rigore per voi”, ha detto Letta a Conte per convincerlo. Il leader M5S ha preso tempo. Poi ha tirato alto.

A sera Draghi si è riunito con i suoi collaboratori più stretti. Sfinito. Preoccupato, dicono, per le grane che rischiano di abbattersi sul Paese mentre i partiti potranno concentrarsi a tempo pieno sulla campagna elettorale. Per alcuni era già iniziata da tempo. Conte, Salvini e Berlusconi. I tre leader più ostili alla linea del governo sulla guerra in Ucraina. Due di loro, con tutta probabilità, saranno presto di nuovo al governo. Come potrà cambiare la linea dell’Italia in politica estera, Draghi lo ha anticipato così: “Abbiamo assistito a tentativi di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin”

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