La scommessa di Vladimir Putin sulla crisi italiana

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Tra i fantasmi che agitano le notti del Cremlino, il posto d’onore va all’ultimo arrivato, “l’Occidente collettivo”. È il sistema politico, intellettuale e militare che tiene insieme con la Nato gli Stati Uniti e l’Europa, i Paesi del vecchio continente e la loro proiezione sovranazionale, l’Unione Europea: e che con l’invasione russa dell’Ucraina ha rimesso in campo il concetto di Ovest davanti all’Est che ritorna a farsi minaccioso dopo la fine della guerra e gli anni della pace: che era solo una tregua.

Per Vladimir Putin “il cosiddetto Occidente collettivo” basa le sue azioni sulla convinzione che il suo modello di globalismo liberale non abbia alternative, dopo la caduta del Muro di Berlino e dell’impero sovietico. Uno schema che il leader russo contesta: “Questo modello non è altro che una versione rivista del neocolonialismo, un mondo in stile americano, un mondo per pochi selezionati in cui i diritti di tutti gli altri sono semplicemente calpestati. E la chiara prova di questo è il destino di molti Paesi del Medio Oriente e di altre regioni, e ora di milioni di persone in Ucraina che l’Occidente sta semplicemente usando in modo cinico come sacrificabili per i giochi geopolitici nel tentativo di contenere la Russia”.

Ancora una volta, da queste parole abbiamo la conferma che non è la Nato il nemico cui guarda Mosca, ma qualcosa che viene prima e va oltre l’alleanza militare transatlantica, e appoggiandosi alla storia e alla tradizione testimonia un’identità culturale, un pensiero costituzionale, un’architettura istituzionale, cioè una dimensione metapolitica che assomiglia a una civiltà, e come tale esercita un’egemonia, nella convinzione che i valori della democrazia siano perenni e generali.

È proprio questa pretesa all’assoluto che la Russia profonda e conservatrice risvegliata da Putin non può accettare, sicura nei secoli della sua titolarità a impersonare e risolvere la storia, con un’ambizione che è tornata a coincidere con la sua missione; e nella convinzione che lo spirito e l’anima russi abbiano naturalmente diritto a un privilegio di destino, per la loro specificità e la loro superiorità irriducibile. Due universali, dunque, si sfidano oggi, uno democratico e razionale, l’altro missionario e spirituale, e sono troppi per il mondo rimpicciolito dalla globalizzazione.

Ciò a cui Putin ambisce è esattamente un contro-modello egemonico rispetto a quello occidentale, altrettanto “collettivo” perché capace di incarnare l’anima dei popoli prima e più ancora dell’alleanza politica e militare tra gli Stati. Il presidente russo si rivolge direttamente a ciò che si agita nel profondo delle nazioni, al deposito di storia, ai costumi, alle leggende, alle superstizioni e alla fede, per trasformare tutto questo in un’opzione di civiltà alternativa, da cui discendono una forma politica e una fisionomia istituzionale che negano la pretesa della democrazia liberale di regolare il mondo con i suoi principi e i suoi vincoli.

Dietro la guerra guerreggiata in Ucraina dopo l’invasione russa si delinea dunque un conflitto sospeso ma totale tra due culture antagoniste in lotta per la supremazia del loro modello, con la democrazia come terreno principale dello scontro. Nelle due parole usate da Putin per definire il nostro mondo mentre gli lancia la sfida, il termine “collettivo” riferito all’Occidente rivela esattamente l’elemento culturale e addirittura spirituale della contesa, perché indica il grado di pervasività del costume politico democratico, introiettato dai cittadini al punto da diventare un’espressione naturale della libertà, un sistema di garanzie implicite e riconoscimenti reciproci nel sociale, un modo di vivere che prende una configurazione politica autonoma e naturale, senza la costrizione dell’ideologia.

Questo vuole costruire Putin: un controcampo guidato dalla Russia dove le tradizioni diventano norma implicita, le memorie e le credenze rinnovano automaticamente le loro promesse eterne, e una civiltà antidemocratica esibisce se stessa al mondo con una proiezione nuovamente imperiale, e una coscienza politica immediatamente alternativa.

Per questo, come rivela la conta pubblica dei decessi politici occidentali da parte di Dmitrij Medvedev, Mosca segue con un’attenzione che può sembrare esagerata le crisi politiche nei Paesi dell’Ovest. Non dimentichiamo che la finestra di fine febbraio per l’invasione fu scelta sulla base di un calcolo delle debolezze occidentali: dopo la ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan, dopo la seminazione dell’isolazionismo nell’elettorato americano da parte di Trump, dopo che Macron aveva parlato di “morte cerebrale” per la Nato, cioè nel momento politico in cui l’America e l’Europa sembravano più lontani, la Ue appariva in stallo, senza una guida e un indirizzo preciso.

Il calcolatore del Cremlino ha sbagliato le somme: la Nato si è potenziata, l’Unione si è rivitalizzata, l’intesa atlantica si è rilanciata. Ma Putin potrebbe obiettare: per ora. Ogni giorno che passa vede infatti aumentare nei Paesi dell’Ovest il fastidio per una guerra senza apparente soluzione, fuori dalla razionalità occidentale, e per le sue conseguenze di ordine economico, energetico, alimentare; e vede impallidire la condanna per l’aggressione, retrocessa a invasione e come tale digerita attraverso un’indignazione contingentata, ormai svanita col tempo, scolorita come la scomoda distinzione tra l’attaccante e il difensore che impone una scelta di campo. La morale occidentale, che teoricamente si nutre di assoluti, nella realtà si rivela a scadenza.

Ecco perché la caduta di Draghi rappresenta per il Cremlino un segnale importante, anche se viene da un Paese piccolo come l’Italia. Draghi affonda con la sua scelta europea, occidentale e atlantica esplicita, fuori dall’eterna ragnatela delle ambiguità della nostra politica estera; e nello stesso momento emerge il profilo politico confuso e incoerente, ma senza alcun dubbio significativo, di un aggregato di forze o esplicitamente filorusse, come la Lega di Salvini, o neutraliste e palesemente polemiche con la democrazia occidentale, come il M5S, o legate a Putin da vincoli autocratici sovrani, come Forza Italia nell’ultima deriva berlusconiana.

È l’Italia che nell’Europa inquieta della guerra pronuncia per prima, esplicitamente, le parole del dubbio occidentale. E questo dubbio è sufficiente per far nascere proprio a Roma la prima crepa ufficiale nel sentimento politico dell’Ovest di fronte al conflitto e alle ragioni negate della democrazia e del diritto.

Vedremo fin dove la crepa cammina. Fuori campo, attende Giorgia Meloni, che sulla guerra ha fatto una scelta netta a sostegno dell’Ucraina, con un giudizio preciso su colpe e responsabilità che i suoi alleati non riescono a pronunciare, forse per ragioni inconfessabili, come il patto sussurrato al Metropol dagli uomini di Salvini con i russi per scambiare tangenti petrolifere con pezzi di politica estera italiana. Ma divisi dalla guerra, Meloni e Putin potrebbero facilmente ritrovarsi alleati nell’interpretazione autoritaria della democrazia, nel modello ultraconservatore e nazionalista di potere, nell’insofferenza per i vincoli dello Stato di diritto, già manifestata pervicacemente da Orbán.

La crepa è solo l’inizio, l’Italia torna sotto osservazione. Da oggi Putin sa che grazie al nostro Paese adesso l’Occidente è un po’ meno “collettivo”.

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