Vladimir Putin sotto scacco e lo spettro nucleare

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L’orologio dell’Apocalisse si è rimesso in moto. Il fatto che il presidente americano e quello russo stiano apertamente parlando di armi nucleari dimostra che il confronto tra potenze è entrato in una fase delicatissima, come non si viveva da decenni: i leader si devono mostrare determinati, pronti ad affrontare il rischio di un’escalation, fino al punto estremo di trasformare il conflitto ucraino in una guerra nucleare, per quanto limitata ad ordigni tattici che sono pur sempre devastanti come la bomba di Hiroshima.

Vladimir Putin ha deciso di aumentare il livello della sfida, con una provocazione muscolare nel giorno dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La sua è una scelta obbligata, perché si ritrova chiuso in un angolo, e questo rende lo scenario ancora più pericoloso.

La situazione sul campo di battaglia limita le opzioni del Cremlino. In questo momento l’esercito di Kiev schiera più soldati e equipaggiamenti più moderni, guidati con tattiche migliori e soprattutto molto più motivati. La linea del fronte è lunghissima e adesso – per usare il gergo militare – i generali di Zelensky “hanno l’iniziativa”: possono stabilire dove e come attaccare.

Mosca invece non ha riserve per fronteggiare le nuove offensive e sta letteralmente raschiando il fondo del barile: arruola detenuti e cinquantenni, tira fuori dai magazzini tank e cannoni d’epoca, manda i jet allo sbaraglio.

Gli ucraini stanno avanzando nel Lugansk, riconquistando alcuni borghi della repubblica secessionista persi nel corso dell’estate, e concentrano mezzi alle porte di Donetsk: anche la “liberazione” del Donbass promessa da Putin appare irrealizzabile. Di più: in questo momento Belgorod e altre città della madrepatria russa sono alla portata dell’artiglieria nemica, esposte a qualsiasi rappresaglia. E i missili antinave Harpoon consegnati dagli Stati Uniti possono colpire pure i porti della Crimea.

Il nuovo Zar sa di essere sotto scacco: l’uomo forte vede incrinarsi la sua credibilità interna e internazionale. Se ne è reso conto nel summit di Samarcanda, dove Xi Jinping lo ha accolto con calibrata freddezza. E invece di arretrare, ha deciso di alzare l’asticella della competizione. Ha lasciato che la Duma approvasse nuove regole per la mobilitazione, aprendo alla possibilità di chiamare alle armi centinaia di migliaia di giovani e prolungare la guerra all’infinito.

Con i referendum si prepara ad annettere i territori occupati, portandoli così sotto lo scudo nucleare che protegge la Russia. Il suo portavoce Peskov ha invitato Biden a leggere le regole della dottrina atomica di Mosca: “La politica in materia di deterrenza nucleare è di natura difensiva – recita il documento approvato nel giugno 2020 – e garantisce la tutela della sovranità e dell’integrità territoriale dello Stato, scoraggiando un potenziale avversario dall’aggressione contro la Federazione Russa, e in caso di conflitto militare, impedendo l’escalation delle ostilità e la loro fine a condizioni inaccettabili per la Federazione Russa”.

Come “condizioni per il passaggio all’uso delle armi nucleari” vengono quindi indicati tre fattori che possono teoricamente verificarsi oggi sul fronte ucraino. La minaccia all’integrità territoriale, quella delle città russe, della Crimea e delle aree annesse con il prossimo referendum; il pericolo che le ostilità determinino una sconfitta e, infine, l’escalation.

Quest’ultimo punto è stato già esplicitato da Mosca, che ha tracciato una “linea sottilissima che separa gli Usa dall’essere parte del conflitto”: “Mettiamo in guardia gli Stati Uniti dal fare passi provocatori – ha dichiarato il viceministro degli Esteri Serghei Ryabkov – compresa la fornitura di armi di gittata sempre più lunga”.

Non si tratta di meccanismi automatici che fanno scattare il conto alla rovescia nucleare, ma di complesse valutazioni che hanno tante sfaccettature e un unico obiettivo: la deterrenza, ossia la capacità di intimidire l’avversario per ottenere un risultato. Come nella celebre crisi dei missili di Cuba, lo schema è quello di alzare la posta del terrore pur di raggiungere un accordo vantaggioso.

Una partita da brivido in cui la Russia schiera “un insieme coordinato di iniziative politiche, militari, diplomatiche, economiche, informative”: il ricatto sul gas ne è l’elemento fondamentale, mirato per spezzare la solidarietà europea intorno a Kiev. Finora non ha ottenuto risultati, anzi le consegne belliche sono cresciute e persino la riluttante Germania le sta incrementando, tanto che ieri l’ambasciatore francese a Mosca è stato convocato per ribadire che “il continuo rifornimento di armi occidentali all’Ucraina è inaccettabile”.

È difficile immaginare una via d’uscita. La strada intrapresa dal Cremlino con il referendum azzera qualsiasi chance di negoziato. A Erdogan è sembrato che Putin sia disposto “a porre fine alla guerra il prima possibile”, come se le mosse aggressive servano solo a spingere verso la trattativa. Ma Kiev non vuole compromessi e non teme neppure la minaccia atomica.

Due settimane fa il comandante in capo delle forze ucraine, il generale Valeriy Zaluzhnyi, ha scritto che i combattimenti si fermeranno soltanto con la conquista della Crimea: “È arduo pensare che attacchi nucleari possano spezzare la nostra volontà di resistere ma allo stesso tempo non può essere escluso il coinvolgimento delle potenze in un conflitto nucleare limitato, che renda più vicina la prospettiva di una Terza Guerra Mondiale”.

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