La grana dei due alleati scomodi sulla strada tra Meloni e Palazzo Chigi

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La solitudine di Giorgia. Favorita e già imbrigliata. Premier in pectore, eppure circondata da alleati che sognano di sgambettarla. O almeno di costringerla di fronte a un bivio: si fa come diciamo noi, altrimenti non ti lasciamo neanche cominciare. Vittima, in fondo, di una contraddizione fatale. Può accontentare Salvini e Berlusconi, scontentando il resto del mondo. Oppure deluderli, con il rischio che siano loro a stracciarle il biglietto della vita per Palazzo Chigi.Solitudine di Giorgia, che neanche ha cominciato e già intravede un frontale con Matteo Salvini. Il leghista vuole il Viminale, “non vedo l’ora di fermare di nuovo gli sbarchi”. Meloni sa che non può concedergli gli Interni e nessun altro dei ministeri chiave, non a un leader che è imputato per sequestro di persona nel processo Open Arms. La leader di Fratelli d’Italia ritiene – anzi, è certa – che mai il Colle accetterebbe questo scenario. Vorrebbe dire mettersi contro tutti, Europa e Stati Uniti, mercati, imprenditori, sindacati. Proverà a spiegarglielo, gli dirà che su questo punto si gioca credibilità e faccia del premier, che oltre questa linea rossa lei non può andare. E questo vale per gli Interni, ma anche per i ministeri degli Esteri e della Difesa: pesa sempre quel giudizio pendente, e gravano anche le valutazioni geopolitiche sul rapporto di Salvini con la Russia di Vladimir Putin.

Qualcosa concederà, sperando che basti. L’Agricoltura al segretario del Carroccio, ad esempio. La Giustizia a Giulia Bongiorno. E soprattutto il Viminale al prefetto di Roma Matteo Piantedosi, che di Salvini è stato capo di gabinetto al ministero dell’Interno. Un compromesso, il massimo che Meloni può offrire al leghista. Basterà? Se però l’alleato dovesse impuntarsi, allora davvero tutto rischierebbe di saltare: niente governo di destra, o comunque nessun esecutivo con questa formula politica. Tutto, ovviamente, escludendo un altro scenario su cui alcuni scommettono in queste ore: una batosta elettorale del Carroccio talmente dura da permettere ai governatori leghisti – e a Giancarlo Giorgetti – di realizzare un “colpo di Stato” a via Bellerio, costringendo il leader alle dimissioni e garantendo una Lega senza Salvini al governo.

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. ASilvio Berlusconi,ad esempio, la leader di FdI dovrà spiegare che il mestiere di presidente del Senato è complesso, faticoso, anche fisicamente gravoso nella gestione quotidiana dell’Aula. Meglio lasciare perdere. C’è però anche qui qualcosa da concedere: la presidenza della Camera adAntonio Tajani.

È un’idea che prende forma da alcuni giorni. Intanto perché garantirebbe a Forza Italia – nei sondaggi più debole degli alleati – la guida di un ramo del Parlamento. Poi perché Tajani è già stato presidente dell’Europarlamento. Infine perché Meloni preferirebbe assegnare il ministero degli Esteri non al forzista, ma a una figura che conosce bene (e che già sponsorizzò per il Colle): l’attuale capo del Dis Elisabetta Belloni. Indiscrezioni riferiscono di un colloquio tra le due. L’offerta sarebbe stata avanzata, la risposta ancora in stand by. Certo è che in questo modo si assicurerebbe anche una staffetta alla guida dei Servizi, di cui si parla dal giorno dopo il fischio finale della partita del Quirinale.

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Sentirsi soli significa non soltanto pronunciare alcuni no, ma riceverne. O almeno: sopportare alcuni “nì”. Quello che Fabio Panetta, oggi nel board della Bce, ha opposto alla leader di Fratelli d’Italia che gli proponeva il ministero dell’Economia. Ruolo strategico, dopo il governo di Mario Draghi. L’economista ha preso tempo, trincerandosi dietro una posizione che può sintetizzarsi così: aspetto di capire se sei in grado di costruire un governo di alto profilo, voglio valutare la forza e l’autorevolezza della tua squadra di ministri.

Altro segnale negativo, di qualche giorno fa. Adolfo Urso, un’altra delle opzioni che Meloni avrebbe in mente per gli Interni, ha organizzato un convegno e si sono presentati alcuni dei vertici degli apparati. Il comandante generale dei Carabinieri, quello della Finanza, il capo della Polizia, alcuni dei vertici dei Servizi. C’è chi si è seduto in platea in alta uniforme. Urso a muoversi come padrone di casa e dando l’impressione, riferiscono, di autopromuoversi per il Viminale. Dopo un viaggio a Washington in cui il capo della commissione si è mosso più da sponsor della leader che da presidente del Copasir. L’effetto è stato quello di generare irritazione e preoccupazione ai vertici delle istituzioni.

Non sa neanche se davvero dovrà cominciare la scalata, ma guardando la cima Meloni non sente di avere molti alleati attorno. Le manca ad esempio un “diplomatico” capace di gestire i rapporti con alleati che pretendono, premono, tramano. Le manca quello che fu Gianni Letta per Berlusconi a Palazzo Chigi. Ancora una volta, quanta solitudine.

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