Ecco qual è la posta in gioco dei leader, al bivio tra sovranismo e lealtà allo spirito dell’Ue

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Un destino in sedici ore. Ciascuno dei protagonisti della più surreale delle campagne elettorali – sicuramente la più calda, non fosse altro perché la prima vissuta tutta in estate – si gioca l’intera carriera politica dentro le urne aperte in questa domenica di fine settembre. Ognuno con la sua storia, per ragioni diverse da quelle che muovono alleati e avversari. Di sicuro, oltre al destino dei leader, oggi in ballo c’è il futuro del Paese. E in parte di un’Europa già fragile, costretta dall’autocrate Putin a uno scenario bellico che segue quello pandemico. Il voto di queste ore rappresenta un bivio: tra sovranismo e populismo, da una parte; responsabilità e lealtà allo spirito fondante dell’Unione, dall’altra. Chiunque siederà al governo, erediterà un patrimonio politico, quello di Mario Draghi, piuttosto difficile emulare. Sarà la scommessa a partire da domani.

Giorgia Meloni

La prima donna forte bussa alla porta di Chigi

Giorgia Meloni e la destra ex missina stanno vivendo in queste ore la vertigine della Storia. Per la prima volta la leader (per di più donna) di un movimento che considera Giorgio Almirante il suo padre nobile può arrivare a coronare il sogno di guidare l’Italia. Gli eredi degli esclusi dal vecchio arco costituzionale, che resse gli equilibri democratici della Prima Repubblica, sono sul punto di prendersi la loro rivincita. In prima persona, senza bisogno di un Berlusconi che faccia da garante, come fu nei primi governi di centrodestra. Ma questo anno e mezzo di governo Draghi ha avuto uno strano effetto paradosso: ha portato ad estremizzare i partiti che ne hanno fatto parte – M5S e Lega – e ha avuto una funzione pedagogica sull’unico grande partito rimasto all’opposizione: FdI. Abbandonate le posizioni no-euro e un certo antiamericanismo di vecchia tradizione missina, Meloni ha presentato se stessa come una scelta non di rottura ma in sostanziale continuità con Draghi. Anzi, quasi fosse lei l’argine migliore contro il putinismo dei suoi alleati Salvini e Berlusconi. La sovranista no-euro che diventa draghiana è un ossimoro, ma gli elettori moderati sembrano crederci. Se va bene è il calabrone, che vola a dispetto delle leggi della fisica. Se va male è l’aeroplano che si avvita subito dopo il decollo. Il problema è che, stavolta, i passeggeri su quel volo siamo tutti noi.

Enrico Letta

Una leadership in bilico sulla soglia del 20%

O “noi o Meloni”, ha detto Enrico Letta il primo giorno di campagna elettorale. Si vedrà il responso delle urne, ma il Pd si gioca in questo voto molto più che il semplice bivio tra governo e opposizione. Il partito ha affrontato la campagna elettorale come fosse un anticipo di congresso, non solo perché sono in tanti pronti a candidarsi alla leadership se la segreteria Letta uscisse malconcia dal voto, ma soprattutto perché è già in corso un evidente scontro di strategie tra chi è ansioso di ricucire il prima possibile con Giuseppe Conte e chi punta ad alleanze sul versante opposto. Quel che al momento sembra latitare in tutti è la fiducia in un partito in grado di camminare solo sulle sue gambe. La percentuale che otterrà la lista sarà decisiva per fissare i toni e i rischi del confronto interno. La soglia psicologica minima è quella del 20 per cento, ma servirebbero quattro o cinque punti in più per affrontare il dopo voto senza lo spettro di un durissimo scontro interno e magari senza il rituale dell’ennesimo segretario bruciato.

Le pagelle della campagna elettorale: voto 5 a Meloni, 6 a Letta e 2 a Berlusconi

di Stefano Cappellini

24 Settembre 2022

Matteo Salvini

Da capitano a gregario della nuova destra

Ci fu un tempo non troppo lontano in cui Matteo Salvini si sentiva quasi il padrone della politica italiana, senza dubbio il numero uno. Non aveva tutti i torti: 17 per cento alla Lega nelle elezioni legislative del 2018 e poi 34 alle europee del 2019. Ma c’è un passo falso che non si perdona a un leader ambizioso: l’incapacità di imparare dai propri errori. E Salvini di errori ne ha commessi tanti senza imparare mai nulla. Ancora oggi batte e ribatte sulla questione dei migranti e non si rende conto che con la guerra in Europa cambiano le priorità e anche le angosce delle persone. Né si possono tessere amicizie clandestine con Putin quando c’è bisogno di solidarietà tra i paesi democratici. Ecco perché appare goffo e impacciato. Quello che quattro anni fa gli dava popolarità, oggi gli procura insofferenza. È schiacciato da Giorgia Meloni che ha invaso i suoi spazi, soprattutto al Nord. Sa che l’alleato americano lo guarda con estrema diffidenza per via della Russia. Si sente protetto dai fedeli che gli guardano le spalle nel Carroccio, ma nulla è eterno. Aver riesumato Pontida ha dato esiti poco incisivi. Il “capitano” rischia di essere un semplice gregario nella nuova destra meloniana. E se il voto andasse proprio male, la Lega potrebbe dirgli addio per tornare al nordismo delle origini.

Giuseppe Conte

Il masaniello del Sud che punta sul reddito

Dopo essere stato un premier senza infamia e senza lode, Giuseppe Conte sembrava davvero un capopartito “senza visione politica né capacità manageriali”, come gli disse Beppe Grillo. L’affondamento di Draghi sembrava l’errore fatale che lo avrebbe condannato all’irrilevanza, e invece Giuseppe Conte ha sorpreso tutti. Impugnando le bandiere del reddito di cittadinanza e del superbonus è riuscito a risalire nei sondaggi, convincendo i suoi elettori che Mario Draghi è solo un mediocre uomo di governo che si è sfiduciato da solo. Operazione prodigiosa, grazie al solito Casalino, senza che Grillo muovesse un dito per aiutarlo (gli ha regalato solo una foto di spalle). Sapremo stasera se le folle acclamanti di questa campagna elettorale si saranno tramutate in voti. Se il miracolo riuscirà, e il Movimento 5 Stelle raccoglierà almeno la metà dei voti di cinque anni fa – ovvero il 16 per cento – Conte conquisterà i gradi di leader e guiderà un partito a sua immagine col quale tentare di rientrare in gioco quando si aprirà la prima crepa nella nuova maggioranza. Se invece rimarrà sotto il 10 per cento, uscirà di scena come un perdente.

Silvio Berlusconi

Il canto dei cigno del partito padronale

Tra quattro giorni Silvio Berlusconi compie 86 anni. La sua campagna elettorale è tutta in questo dato anagrafico. Nel 1994 la sua anomalia consisteva nel conflitto di interessi, la sua cifra impolitica e extracostituzionale nella legittimazione di quelli che lui stesso chiamava “fascisti”. Ora somma quei dati ad una ennesima “corsa” volta all’indietro. Incapace di misurarsi con decoro con i nuovi strumenti di propaganda e comunicazione come Tik Tok. Con proposte e formule che si riconoscono solo per il loro suono antico e irrealizzato. È il passato che ritorna e come molti ritorni si presenta dentro contorni grotteschi e con il ritocco estetico della finzione. Incapace di cogliere la novità, legato a doppio filo al regime di Putin che sta svelando il suo vero volto. Ma che il leader di Forza Italia non distingue. Difende l’amico del Cremlino con argomenti surreali e senza il pudore di nascondere una dipendenza. Per il suo partito sarà probabilmente il canto del cigno. Una formazione decisamente gregaria. Che festeggerà la vittoria potendo soltanto rientrare in Parlamento. Nessuna possibilità di incidere dentro una coalizione in cui sarà il terzo e ultimo arrivato. Il vero rischio: una fine ingloriosa.

Carlo Calenda

L’invenzione riuscita del “terzopolismo”

Anche se i candidati non possono ammetterlo, le elezioni sono diventate il miglior veicolo autopromozionale. In questo senso Carlo Calenda ha già vinto a prescindere dai risultati essendosi imposto nella vita pubblica non solo come Terzo Polo, ma addirittura al di sopra di Renzi. Questo perché nessuno più di lui incarna il presente assoluto e la sua relatività, lo sregolamento degli antichi confini, la coincidenza di pubblico e privato, il gran mischione tra la politica e tutto il resto. Così in qualche modo la sua maschera (che in latino si diceva persona) resterà fra noi. Come politico di maggioranza e/o di opposizione, magari come ministro, o ambasciatore, manager, conduttore televisivo, influente della rete e mille altre cose che potrà fondare, guidare, poi anche distruggere, ma sempre coram populo, perché la vita delle celebrity reclama un certo tasso di divertimento e imprevedibilità, dall’infatuazione per la Repubblica romana al tipo di bibite presenti nel frigorifero di casa. Per il resto irruenza, calore, narcisismo e fragilità costituiscono, sulle ceneri delle culture politiche, gli indispensabili tratti del personal branding. Per un po’ gli italiani si affezionano, poi gli passa.

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