Il leader sotto assedio resiste agli imprenditori: “Non faccio passi indietro”

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Si sgretola il grande Nord leghista. Si defilano allevatori e agricoltori che avevano acclamato il leader come loro paladino. Poi è stata la volta degli imprenditori, zoccolo duro del consenso ancora pochi mesi fa. Mentre la vecchia guardia “bossiana” tenta di riorganizzarsi contro la deriva meridionalista del capo, la candidata premier Giorgia Meloni chiude a doppia mandata le porte del Viminale e in Lombardia perfino Letizia Moratti insidia la poltrona del governatore Attilio Fontana. Cronaca del grande assedio, di un potere che si sfalda, di una leadership che si blinda nel bunker per resistere a oltranza. Matteo Salvini è sempre più isolato, dentro e fuori la Lega.

Il capitano è sempre più nervoso, insofferente, impaurito. Nel partito gli rimproverano il fatto di non aver nemmeno abbozzato un’autocritica, dopo il tracollo del 25 settembre: quell’8,8 per cento – la Lega a una cifra – al di sotto di ogni buia aspettativa.

Lui si difende attaccando, alla Salvini. “Altro che immaginifiche, noi la Flat tax e la riforma delle pensioni le portiamo a casa, costi quel che costi, saranno nel programma dei primi cento giorni del governo”, si sfoga il leader con Borghi, Bagnai e gli altri falchi del partito che come lui in quell’esecutivo contano di entrare a vele spiegate. L’uscita del presidente degli industriali Carlo Bonomi – in piena enclave del Carroccio che fu, nella Varese degli esordi di Umberto Bossi e delle valli care a Giancarlo Giorgetti – ha l’effetto del fuoco amico per un esercito già in rotta. E alle prese con la decisiva partita della formazione del nuovo governo.

È come se ieri Matteo Salvini si sia ridestato dai sogni elettorali con una secchiata d’acqua. Non gli avversari politici ma gl imprenditori gli hanno spiegato che quota cento e tassa piatta sono promesse forse sostenibili in tempi di pace. Ma non quando bisogna aiutare gli italiani a pagare le bollette, quando imprese e hotel chiudono perché non riescono a sostenere le spese energetiche e quando le case rischiano di restare al freddo per il costo del gas. Il sospetto non dichiarato del leader leghista, come raccontano i dirigenti più vicini, è che il capo degli industriali stia giocando di sponda con la futura premier Meloni, più prudente e cauta che mai, dopo la vittoria.

Il fatto è che Salvini non ci sta. E venderà cara la pelle. Non rinuncerà alle sue due bandiere programmatiche e lo ripeterà anche oggi pomeriggio nel Consiglio federale del partito. Come pure non rinuncerà ad entrare al governo e a portare con sé i più fidati tra i suoi uomini e le sue donne. Fratelli d’Italia e berlusconiani sono disposti a tutto pur di convincerlo a desistere dall'”assalto” al Viminale.

Torna a farsi perciò insistente la voce sulla più improbabile delle offerte: al leghista la futura premier sarebbe disposta a “cedere” anche la presidenza del Senato, la seconda carica dello Stato (sebbene richiesta da Ignazio La Russa), pur di disinnescare la mina Salvini dal governo. Costringendolo così indirettamente a rinunciare anche alla segreteria del partito, magari in favore di uno dei governatori del Nord. Il diretto interessato ha già fatto sapere tuttavia che la proposta è irricevibile. Al governo deve entrare lui, se non come ministro dell’Interno, almeno da vicepremier con una delega pesante: Sviluppo economico (dell’ormai ex Giorgetti) o Agricoltura. E poi, al suo fianco, Giulia Bongiorno, Edoardo Rixi e possibilmente uno tra Claudio Borghi e Alberto Bagnai. Gli anti-sistema e anti europeisti, fumo negli occhi per Meloni. Nessuna parola verrà spesa invece per Giancarlo Giorgetti, dopo le scintille dei giorni scorsi.

L’ex responsabile del Mise, che ieri non si è fatto vedere nella sua Varese al meeting organizzato dagli industriali col presidente Bonomi, deve restare fuori: questo il diktat. È come se il braccio destro dovesse pagare il conto del governismo draghiano.

Ora, il “Comitato” che Umberto Bossi, col suo residuo di forze, sta provando a rianimare non basterà a spodestare il comandante in capo. La forza dei governatori Zaia e Fedriga non è ancora sufficente alla spallata finale. Ma il vento che soffia dal Nord non promette nulla di buono per la leadership del partito che non è stata mai tanto in crisi.

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