Cosa sarà passato per la testa dell’uomo più ricercato d’Europa quando l’affabile chirurgo che lo accoglieva in clinica, che lo ha operato e con il quale scambiava saluti, opinioni e perfino motti di spirito, gli ha chiesto di fare un selfie? Sarà scattato nella mente di Matteo Messina Denaro, allenata da sempre al sospetto, un allarme che suonava più o meno così: “E questo chi è? E se la mia faccia finisce tra le mani di quelli che mi stanno cercando da trent’anni e per i quali sono nient’altro che un fantasma?”. Oppure le sue difese, trasmesse per ereditarietà di codici mafiosi, si erano talmente abbassate da non considerare questo rischio? O, infine, la sensazione di impunità cresciuta a dismisura nel corso dei tre decenni passati a farsi beffe di chi lo cercava in ogni angolo d’Italia e non solo, era arrivata al punto da consentirgli la beffa suprema ai cacciatori che ne seguivano le tracce?
Di certo c’è, che il selfie del boss con l’infermiere fornisce materiale inedito agli appassionati di fenomenologia del comportamento mafioso. E può perfino alimentare il dibattito su come è cambiata la mafia. Sì, perché la prima reazione sarebbe quella di affidarsi al titolo dell’ultimo film di Franco Maresco, il regista di “Cinico tv”, “Belluscone” e altri meraviglisoamente urticanti racconti della realtà siciliana: “La mafia non è più quella di una volta”. Impossibile immaginare, infatti, Totò Riina o Bernardo Provenzano (giusto per restare in tema di inafferrabili poi afferrati) concedersi all’occhio indiscreto di un fotografo ancorché improvvisato.
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Si dirà: quando i predecessori di Matteo Messina Denaro latitavano (sempre dalle parti di casa loro) gli smartphone e la compulsiva propensione al selfie non esistevano. Vero. Come è vero, però, che il comportamento di “U siccu” fatto di discorsi sul costo delle camicie che indossava e perfino di confidenze (“Sono un pensionato d’oro”) con le persone che incontrava, cancella del tutto il manuale con le regole del perfetto latitante di Cosa nostra vigenti da almeno un secolo.
Per la verità, qualche affinità comportamentale l’ultimo padrino finito in gabbia, ce l’avrebbe con i boss della cosiddetta vecchia mafia: i Bontade, gli Inzerillo quelli cioè che i suoi alleati corleonesi sterminarono per dare la scalata alla Cupola. Con una differenza, però: i boss della cosiddetta vecchia mafia non avevano bisogno di nascondersi per comprare le loro camicie di seta nelle boutique più eleganti (almeno per i loro canoni estetici) di Palermo. Quelli giravano per vetrine e frequentavano salotti e sedi di partito senza necessità di ricorrere a false identità e, soprattutto, non avevano problemi a farsi fotografare con politici, imprenditori e affini.
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Dunque, al di là della strumento adoperato – il selfie col telefonino in luogo dellla macchina col rullino da sviluppare – il super ego da impunità costruita negli anni (se di queso si tratta) di Matteo Messina Denaro richiama alla mente il comportamento di quei padrini spazzati via dai mitra corleonesi negli anni Ottanta. Con un dubbio non da poco, però: se quei padrini fossero stati latitanti ricercati dalle polizie di mezzo mondo dotate peraltro di sofisticati mezzi per l’identificazione delle persone, avrebbero ceduto alla richiesta di una foto?
Delle due l’una, se da questo selfie inconsueto si vuol trarre una conclusione: o il boss che cede all’autoscatto con lo smartphone dimostra che anche in questo la mafia – sorretta dalla persistente sensazione dell’impunità – adegua sé stessa ai tempi che cambiano, oppure quella foto mostra un radicale attenuamento delle cautele omertose dei boss. Con quali effetti sarà il tempo a dirlo.
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