Carlo Tavecchio, morto l’ex presidente della federcalcio

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MILANO – La politica era la grande passione di Carlo Tavecchio, scomparso a 79 anni nella notte all’ospedale di Erba, dove era ricoverato da una settimana per una polmonite bilaterale. È stato il più naïf tra i presidenti della Federcalcio, ma anche uno tra i più scafati e inossidabili, al di là delle disavventure per le quali è passato alla storia del calcio italiano, su tutte le dimissioni per la mancata qualificazione della Nazionale al Mondiale 2018 e la gaffe sul famoso “Opti Pobà che mangiava le banane”, personaggio immaginario di un discorso contro l’invasione dei calciatori stranieri, che gli valse l’inibizione internazionale di sei mesi con l’accusa di razzismo.

Il politico Tavecchio era una figura tanto familiare che poche settimane fa alcuni club di Serie C, incuranti della sua età, lo avevano contattato per sondarne la disponibilità a candidarsi come presidente della Lega Pro. D’altronde a luglio avrebbe compiuto sì 80 anni, ma a 77 era stato rieletto presidente del comitato regionale lombardo della Lega Dilettanti, carica già ricoperta all’inizio della sua traiettoria di dirigente sportivo. E a chi all’epoca lo aveva interrogato su quel vistoso passo all’indietro, dando per scontato che si trattasse dell’incapacità di accettare il declino, aveva risposto con una frase che era tutta un programma, anzi era il suo programma: “Stiamo alla finestra”.

Da dirigente di banca al mondo del calcio

Stare alla finestra significava aspettare il momento propizio per tornare in auge rialzandosi sempre da ogni caduta, lui vecchio democristiano della Prima Repubblica sopravvissuto alla Seconda e in voga pure nella Terza. Dopo il diploma in ragioneria, il ragazzo brianzolo di Ponte Lambro, sotto le Prealpi comasche, era diventato dirigente di banca, ma a 33 anni il fortissimo richiamo della suddetta politica lo aveva spinto a candidarsi sindaco del suo paese, carica che mantenne dal 1976 al 1995, per ben quattro mandati, e che ricordava volentieri, attribuendosi il merito di avere avviato il primo esperimento  di compromesso storico col Pci. In parallelo con la vocazione governativa, coltivava la passione per la dirigenza sportiva.

Presidente dei dilettanti per 15 anni

Nel 1974 aveva fondato la  Pontelambrese, la squadra di calcio locale, facendone il trampolino di lancio personale: consigliere e poi presidente della Lega Dilettanti Lombarda, presidente della Lega Nazionale Dilettanti dal 1999 al 2014, vicepresidente della Figc nel 2007, vicario nel 2009, e infine presidente federale dal 2014 al gennaio 2018 (la prima volta battendo l’ex campione Demetrio Albertini, la seconda l’attuale ministro Andrea Abodi), fino alle dimissioni per quella che lui stesso definì “l’apocalisse” di San Siro, l’eliminazione nello spareggio con la Svezia per andare in Russia, dopo il secondo posto nel girone dietro la Spagna. La consapevolezza della gravità di quella batosta per il calcio italiano lo spinse appunto ad abbandonare la poltrona, convinto che fosse una disfatta irripetibile: nessun membro del consiglio federale, peraltro, seguì il suo esempio e quattro anni dopo gli azzurri avrebbero di nuovo mancato l’obiettivo contro avversari più deboli (Svizzera nel girone, Macedonia del Nord nella semifinale dei play-off). rispetto al fresco precedente.

Nominato dall’aprile 2017 al gennaio 2018 commissario della Lega di serie A, Tavecchio non aveva mai smesso di sognare un ritorno in grande stile: una famosa fotografia lo pescò nel 2020 in un vertice tra potenziali futuri dirigenti del Milan a monte di una trattativa che non andò mai in porto (con lui, di fede interista, c’erano l’ex dirigente rossonero dell’era Berlusconi, Ariedo Braida, e il noto avvocato di diritto sportivo Mattia Grassani). Mentre non si rassegnava a un ruolo di secondo piano, rivisitava sia “l’apocalisse” con la Svezia, attribuendola agli errori del ct Ventura (“era la quarta scelta, prima avevo quasi preso Capello, Donadoni e Lippi, tutti sfumati per ragioni diverse”), sia il famoso discorso su Opti Pobà: “Non sono razzista e non intendevo offendere qualcuno: per anni ho portato in Togo, con mia  moglie, medicine e materiale scolastico per i bambini. Volevo solo dire che troppi stranieri fanno male alla serie A. E avevo ragione: l’Italia è stata di nuovo eliminata dal Mondiale per questo motivo”.

Incline alla gaffe verbale, Tavecchio ne aveva collezionate tante, in particolare con le dichiarazioni a ruota libera sul calcio femminile. Se parlava in libertà, non era nemmeno quotata la possibilità che non si abbandonasse a qualche battuta spericolata, talvolta mitigata dalle intenzioni innocue. Ad esempio quella sul pareggio della Nazionale con la Nuova Zelanda, al Mondiale in Sudafrica, perché nel ritiro faceva freddo e gli azzurri infreddoliti si svegliavano di notte per fare pipì. Oppure quella, un po’ da cumenda lombardo, sul tetto dell’aeroporto di Baku “in laminato contorto: 300 mila euro di spesa, se si scelgono gli operai giusti”. Oppure ancora sul voto “facile” dei presidenti delle federazioni minori alle elezioni Fifa. Proprio nel contesto internazionale, però, riemergeva il Tavecchio politico, che in Italia era scivolato sulle condanne negli anni dal 1970 al 1998 di natura fiscale e assicurativa (fu poi assolto nel 2016) e sui casi controversi del business dei campi in sintetico e del libro per bambini sul calcio acquistato in 20 mila copie dalla Figc. Ai congressi Uefa e Fifa ridiventava lo scafato navigatore buono  per tutti i mari. Fu decisivo, come pontiere, per l’elezione del presidente dell’Uefa Ceferin e fu tra gli artefici di quella di Infantino a presidente Fifa. Convinse Conte a diventare ct nel 2014, poi non riuscì a trattenerlo nel 2016, dopo l’Europeo sfumato ai quarti di finale e ai calci di rigore con la Germania. Resta memorabile il video in cui, sul campo di Montpellier, si allena a colpire il palo: metafora di una carriera da presidente che avrebbe voluto fare gol.

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