Dal Pakistan alla Cina, l’impero e le alleanze dei clan di San Luca. Arrestate 202 persone in sette Paesi

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Ai pakistani potevano chiedere un carico di kalashnikov “per gli amici di Rio” e documenti per chi dovesse sparire per sottrarsi alle indagini. Ai cinesi di trasferire, tramite un sistema di agenzie informali, più di venti milioni di euro in America Latina e da lì al Belgio in cambio di una commissione del 9 per cento. In Portogallo hanno costruito un impero nel settore ristorazione, mentre la Germania si è scoperta infettata in cinque Land. Da San Luca, sulla cocaina e i suoi profitti le famiglie Nirta, dei Mammoliti “Fischiante”, Strangio “Fracascia” e Giampaolo, insieme ai Morabito di Africo, con i loro storici broker allevati nella Locride, hanno costruito un impero. Che oggi è caduto giù.

I numeri record dell’operazione

Duecentodue arresti in sette Paesi – Italia, Francia, Germania, Belgio, Romania, Portogallo, Spagna –  almeno quattro procure europee attivamente coinvolte nell’inchiesta coordinata dall’Ufficio di Reggio Calabria, diretto da Giovanni Bombardieri,  oltre 23 tonnellate di cocaina sequestrate,  insieme a beni per diverse decine di milioni in Italia e altrettanti all’estero, più di due miliardi e mezzo di guadagni illeciti mandati in fumo.

Fosse anche solo per i numeri, l’inchiesta internazionale Eureka sarebbe epocale. “È la più importante nella storia di Eurojust”, dice Filippo Spiezia, vicepresidente e rappresentante italiano, “ma soprattutto conferma come la ‘ndrangheta sia una delle principali minacce alla sicurezza in Europa”. Se si mette in conto che a trainarla è il lavoro di una procura azzoppata da due aggiunti su tre che mancano da oltre un anno, con un procuratore capo che da mesi aspetta che il Csm sciolga il nodo sulla sua nomina contestata, è impresa da Davide contro Golia.

Un paese di tremila anime al centro dell’impero

Tutto parte da San Luca, tremila anime o poco più arrampicate sull’Aspromonte jonico. Un paese di vecchie case neanche intonacate, dove i palazzi nascondono tunnel e bunker in cui si sono nascosti decine di latitanti, non c’è un cinema, una palestra, una scuola secondaria. Decine di clan e sottoclan, con almeno tre organizzazioni di narcos che ne sono diretta filiazione, invece sì. E da  quel pugno di case sulla Locride sulla cocaina hanno costruito un impero. Gli investigatori tedeschi e belgi che in mattinata hanno partecipato al blitz dei carabinieri del Ros, del comando provinciale di Reggio Calabria e dello squadrone cacciatori, che ha fatto finire in manette circa la metà dei soggetti arrestati in Italia, quasi non ci credevano che tutto potesse partire da lì. Eppure.

Tonnellate di droga importate dai santolucoti hanno attraversato gli oceani e sono diventate ristoranti, bar e gelaterie a Roma, in Portogallo e in Germania, aziende edili in Belgio, carichi di armi che hanno attraversato i continenti e sono finite in mano a organizzazioni di ogni tipo. Perché la coca significa soldi – tanti – che hanno intossicato economie e mercati di almeno due continenti e decine di Paesi. In Europa, Germania, Belgio e soprattutto Portogallo, dove un ruolo di primo piano lo avrebbe avuto la moglie di Rocco Morabito, di quel fiume carsico di denaro iniziano ad avere paura. Non si vede. Quando emerge è sempre troppo tardi.

I nuovi “spalloni” cinesi

Anche perché i clan sono rapidi a tornare all’antico per sfuggire alle indagini, con i vecchi spalloni che tornano protagonisti come negli anni Novanta, quando miliardi di lire attraversavano il confine con la Svizzera per finire nelle casse delle banche. Adesso gli spalloni sono cinesi e non c’è più bisogno di attraversare le montagne. Si presentano dove richiesto a ritirare il denaro e attraverso un sistema clandestino di money transfer, dalla Locride o dall’Europa lo fanno arrivare fino in Brasile, in cambio di una commissione che va dal 9 al 12 per cento.

Sono milioni di euro, ma ai clan poco importa. Il volume di affari che gestiscono si conta per miliardi. Almeno 2,5 valeva la droga che nel corso dell’indagine è stata sequestrata e molti carichi – è il sospetto – sono sfuggiti alle maglie dell’indagine. Soldi che vengono reinvestiti, soprattutto all’estero. “Le componenti di ‘ndrangheta hanno un ruolo decisivo nel movimentare capitali enormi, che oggi sono il problema più serio da investigare. Questa indagine  – sottolinea il procuratore Giuseppe Lombardo – ha permesso di intercettare flussi finanziari superiori a 2,5 miliardi di euro, una cifra che non ha eguali nella storia giudiziaria recente. Sono cifre in grado di condizionare i mercati in modo evidente e percepibile”.    

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I criptofonini e quel tesoretto investigativo scovato nei server

È un impegno da mettere in agenda come urgente, perché i clan corrono. Tanto più evolvono le tecniche di indagine, tanto più gli uomini di ‘ndrangheta e le organizzazioni che ad essi sono collegate – tante, da Primeiro comando capital in Brasile e Uruguay al Cartel del golfo, dagli albanesi di stanza in Ecuador agli “amici marsigliesi” pronti a fornire documenti – sanno innovarsi. E oggi tutte le comunicazioni passano sui “criptofonini”. Sembrano dei normali smartphone, ma non lo sono: Gps, google, bluetooth, persino la fotocamera sono disabilitate, l’accesso a reti non protette altrettanto. Con normali schede sono inutilizzabili, funzionano solo con quella dedicata, ma chiamate e messaggi, che si autodistruggono in un tempo stabilito, viaggiano solo sulla rete Voip. In più hanno una serie di finte app, in grado di simulare una normale operatività del telefono, un detector per i sistemi di intercettazione e persino un tasto d’emergenza che permette di azzerarne la memoria e rendere irrecuperabili tutte le informazioni.

Gli investigatori però sono riusciti a bucarli. Un’inchiesta europea di circa un anno e mezzo fa, ha permesso di individuare una società che controllava i server su cui passavano molte comunicazioni. Un tesoretto investigativo oggi finito in diverse indagini in Europa e ancora non esaurito. I clan calabresi, o almeno alcuni dei loro uomini, ci sono di mezzo sempre o quasi.

Le mire dei clan sulla Camera. “Non possiamo restare ‘ndrangheta agricola”

Sono loro a fare da collante a organizzazioni criminali diverse per provenienza, radicamento e specializzazione, le usano per farci affari, tutelare latitanze dei loro – a partire da quella di Rocco Morabito “U Tamunga”, il re del narcotraffico arrestato da secondo latitante più ricercato dopo Matteo Messina Denaro, evaso a Montevideo e riacciuffato in Brasile – reinvestire. All’estero per lo più, perché in Calabria i soldi si notano e l’occhio degli investigatori è allenato. Nella casa madre, è lo Stato, tramite la politica la principale fonte di guadagno.

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Non a caso i clan di Bianco – anche i loro uomini sono finiti in manette – avevano già messo in campo una strategia che passava per piazzare propri rappresentanti al Comune, alla Regione, persino alla Camera dei deputati.

“Ora la botta è questa qua, in questo frangente della Camera dei deputati. Quello è il gioco nostro se vogliamo respirare, sennò sai che resteremo noi?”, dice un affiliato ascoltato dagli investigatori. “Rimaniamo una ‘ndrangheta agricola”.

Sebbene per il gip non ci siano elementi sufficienti per procedere contro gli amministratori evocati nelle conversazioni – i due candidati sindaco di Bianco, Aldo Canturi e Pino Serra, pronti a offrire, dicono gli indagati, posti in amministrazione e voti, l’aspirante consigliere regionale Udc, Sebastiano Primerano – la disponibilità sembra esserci eccome. Nomi di deputati o aspiranti tali, nelle carte non se ne trovano. “Almeno per adesso – dice il procuratore capo Bombardieri – non possiamo dire altro”.

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