Per la stragrande maggioranza dei lettori il nome di Milan Kundera, morto a Parigi all’età di 94 anni, evoca subito il romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere, e già solo questo titolo ha il sapore di un enigma, presentandosi come una contraddizione in termini: si può definire la lievità del vivere come un fardello soffocante? Molta filosofia e letteratura classica occidentali respirano implicitamente dentro il capolavoro kunderiano, che uscì nel 1984 e fu un successo clamoroso.
La particolare “leggerezza pesante” di Kundera ci catturò non solo come una storia bella e densa, ma come un modo di concepire la complessità di sfumature delle umane interazioni e di meditare sul senso dell’essere così come siamo, lanciati come cose inermi nella spirale divoratrice della Storia. Lo scrittore ceco, nella sua opera centrale, trasmette una verità perturbante: viviamo subendo il fatto che nulla di quanto ci riguarda può ripetersi in maniera identica.
Il passaggio da un istante all’altro si declina in un presente ostinato e transeunte, che ci obbliga a percorrere i nostri giorni nella mancanza perenne di ciò che stiamo vivendo, poiché ogni momento scappa via nell’attimo stesso in cui ci siamo dentro. Kundera riversa questo pensiero in una trama tempestosa e in quartetto polifonico di personaggi incorniciati dalla Primavera di Praga, cioè dal periodo in cui, nel ’68, Alexander Dubček provò a realizzare in Cecoslovacchia “un socialismo dal volto umano” (in agosto l’intervento militare sovietico mise fine all’impresa).
Noi lettori vediamo agitarsi, nel ciclone degli eventi, due coppie di giovani con le loro tortuose disposizioni intellettuali e i loro livelli diversi di affettività, che vanno dalla pietas al libertinismo. Il narratore rappresenta il quinto tassello del paesaggio ed è una voce illuminante nello scrutare le circostanze individuali e collettive. Le gesta e i caratteri delle figure in campo lo sollecitano a formulare riflessioni su temi quali i nessi fra i destini, la difficoltà delle scelte e l’inesauribile aspirazione alla felicità. Da tale osservatorio inseguiamo le vicissitudini di Tomás, Tereza, Sabina e Franz, che si allacciano, si giudicano, si staccano e si ritrovano all’interno di scenari realistici. È quest’intreccio fra aspetti di cronaca e dimensioni metafisiche a sancire la qualità dell’opera, il cui stile di montaggio originale mescola squarci di spiritualità a notizie storiche, ad aneddoti e persino ad appunti fisiologici.
Assieme agli accadimenti descritti, si stagliano nel tessuto narrativo interrogativi “alti” sull’esistenza, eppure ben relazionabili a esperienze comuni. L’intero racconto risulta chiaramente alimentato dalla sofferenza dell’esule Kundera, il quale rammenta, critica, rimpiange e attacca gli artefici dei soprusi che lo tormentano. Intensamente poetico nella prosa (non a caso nacque alla scrittura come poeta, debuttando con tre volumi di poesie), Milan attraversò un’ampia fetta della propria vita in contrasto col regime cecoslovacco, che lo aveva allontanato dalla sua terra.
Ovunque, in ciò che scrive, s’insinua la convinzione che la sorte umana sia di per sé una trappola, e ad esempio Tomás e Tereza, nell’Insostenibile leggerezza, ci appaiono schiacciati da una tragedia senza catarsi. Ma sarebbe deviante o riduttivo considerare l’estro di Kundera solo alla luce dei suoi affanni biografici e del suo malessere verso le violenze della politica. Quest’autore ombroso e raffinato, capace di muoversi con agilità tra fiction e saggi, si può percepire come un frutto elevatissimo della stratificata cultura ceca, di cui elabora le influenze provenienti dalle tradizioni ebraiche, tedesche, morave, boeme e magiare.
La sua scrittura ha lo stesso effetto sottilmente ipnotico ricavabile dalla visione del Teatro Nero di Praga, fondato su un trucco ottico: coloro che controllano le fila dello spettacolo vengono risucchiati dal buio del contesto, facendo sì che oggetti e immagini si animino sulla scena come se fossero dotati di vita propria. Si nutre del medesimo sortilegio prospettico il rapporto di stimolo reciproco (invisibile, non dichiarato) tra stati soggettivi e sfondi oggettivi nei libri di Kundera.
Se ipotizziamo una suddivisione – sommaria e grossolana – tra i due grandi filoni della letteratura ceca, vedremo che uno si basa su una vena popolaresca e paradossale, ai limiti del surrealismo, e vi appartengono per esempio Jaroslav Hašek e Bohumil Hrbal, mentre un altro è più intellettuale, psicologico e introspettivo, e lo domina l’incomparabile gigante Franz Kafka. Con la sua profondità illusionistica e cerebrale, Kundera va inserito nel secondo gruppo, senza escludere qualche sconfinamento nel primo per via di alcuni sprazzi d’ironia surrealistica emergenti dai suoi testi. Dell’amato Kafka Kundera parla a lungo in quel saggio meraviglioso e discontinuo che è “I testamenti traditi” (1993), dove lo spazio concesso al creatore della “Metamorfosi” è pari a quello attribuito al compositore ceco Leoš Janáček, di cui il nostro romanziere colse come nessuno la forza innovativa.
Milan Kundera era nato nel 1929 a Brno, in quella che una volta era la Cecoslovacchia e ora è la Repubblica Ceca. Suo padre, rinomato pianista, diede al figlio una solida educazione musicale. Da giovane Milan fu jazzista e la musica sarebbe rimasta sempre al centro dei suoi interessi, insieme al teatro. Si laureò alla Scuola di Cinema di Praga, dove poi avrebbe tenuto corsi di letterature comparate.
Nel 1948, ancora studente, s’iscrisse al Partito Comunista e le sue idee “non conformi” provocarono la sua espulsione. Quando venne riammesso divenne un punto di riferimento dei dibattiti politici di quegli anni. Schieratosi a favore della Primavera di Praga, fu cacciato nuovamente dal Partito nel ’70, e cinque anni dopo emigrò in Francia, dove insegnò nelle Università di Rennes e di Parigi. In quest’ultima città ha vissuto per decenni con la moglie Vera Hrabanková.
Nel ‘79 perse la cittadinanza cecoslovacca e nell’81 ottenne quella francese. Le sue opere sono state proibite per molto tempo in Cecoslovacchia e i titoli più recenti di Kundera sono nati in francese. Soltanto nel 2006 “L’insostenibile leggerezza dell’essere” poté vedere la luce nel Paese dell’autore.
Già nel ’63 Milan conquista una certa fama col primo dei tre tomi di racconti chiamati “Amori ridicoli”, che convergeranno in un unico volume nel ’70. La sua fertile attività di drammaturgo si esprime negli anni Sessanta in vari play (“I proprietari delle chiavi”, “L’abbaglio”, “Due orecchie, due nozze”) e culmina nel ‘71 con “Jacques e il suo padrone”, omaggio a “Jacques il Fatalista” di Diderot. L’esordio nel romanzo avviene nel ’64 con “Lo scherzo”, agra ricostruzione del clima persecutorio vigente in Cecoslovacchia. Negli anni Settanta firma “Il valzer degli addii”, dramma sentimentale “basato sulla forma teatrale del vaudeville” (parole sue), “La vita è altrove”, ritratto di un poeta-rivoluzionario condannato a una morte precoce dalla propria lirica innocenza, e “Il libro del riso e dell’oblio”, composto da sette medaglioni votati all’argomento scivoloso dell’uso strumentale della dimenticanza usato dai regimi totalitari per mantenere il potere. Nel ’90 esce in Francia “L’immortalità”, narrazione scandita in sei atti intrisi d’irridente malinconia. Sono tappe di esplorazione dell’eros e dell’emergere del caso nei labirinti emotivi delle nostre vite. Le parti dell’insieme s’intersecano e si sovrappongono, e vi possono irrompere le disquisizioni di campioni quali Goethe e Hemingway.
In lingua francese esce una trilogia sui vizi umani: La lentezza” (1995), “L’identità” (1997) e “L’ignoranza” (2001). Nel nuovo millennio Kundera pubblica soprattutto saggi, come “Il sipario” (2004) e “Un incontro” (2009), che accoglie le sue note sull’arte dello scrivere. In Italia Kundera viene edito e continuamente ristampato da Adelphi, che nel maggio del ‘22 propone Un Occidente prigioniero”, dove confluiscono due suoi interventi politici, uno del ’67 e l’altro dell’83.
Il primo esalta i valori culturali delle singole nazioni e sottolinea l’ingiustizia delle interferenze imposte dagli ideologi di regime. Il secondo è un atto d’accusa all’Occidente pavido e inerte che ha assistito senza batter ciglio alla “distruzione” (causata del blocco sovietico) del suo lembo orientale, costituito da Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia. Aver ignorato tale zona geografica, vista come il cuore ideale dell’Europa, ha prodotto guasti le cui conseguenze sono oggi plateali. È stata una delle profezie scaturite dalla sensibilità storica di Kundera, cantore nostalgico dell’est europeo e scrittore tra i più incisivi e geniali del ventesimo secolo.