Questo articolo è stato pubblicato su Repubblica del 20 ottobre 1987
È stata molto drammatica la giornata di ieri nelle grandi Borse mondiali, non esclusa quella di Milano, il cui indice ha perso circa il 6 per cento. Ma il segnale più preoccupante viene naturalmente da Wall Street, dove la giornata ha registrato un pauroso calo delle quotazioni che si aggiunge a quello, già consistente, dei giorni scorsi.
Il crollo dei prezzi a Wall Street ha indotto ad affermare che esisterebbe contrasto fra l’andamento dell’economia americana e quello della Borsa. Ma il paradosso di una economia che tira e una Borsa che perde colpi è soltanto apparente; l’intreccio dei rapporti che legano l’una all’altra è complesso e sgrovigliarlo non è facile, ma non impossibile. Negli Stati Uniti l’utilizzo della capacità produttiva è dell’81 per cento e tende ad aumentare; il tasso di disoccupazione è del 5,9 per cento e tende a diminuire; il saggio di crescita è del 3 per cento e più; in queste condizioni, l’economia è al limite del potenziale dello sviluppo non inflazionistico. Le famiglie, le imprese, il governo spendono più di quanto producono.

L’eccedenza della domanda interna sull’offerta interna non si ripercuote nell’aumento dei prezzi perché gli Stati Uniti importano più di quanto esportano. Che una situazione come questa possa durare indefinitamente diviene sempre più incerto; il suo reggere dipende dalla disposizione del resto del mondo a finanziare gli Stati Uniti accumulando Buoni del Tesoro americani; obbligazioni di imprese americane, azioni americane; depositi bancari in America.
La convenienza a collocare capitali negli Stati Uniti deriva in larga parte dalla differenza dei tassi di interesse in questo paese e nei principali paesi esportatori di capitali: il Giappone e la Germania Federale. Basta un piccolo aumento dei tassi d’interesse in questi paesi, per convincere i mercati che i tassi aumenteranno negli Stati Uniti in misura maggiore; che, se questo accadrà, il ritmo di crescita dell’economia rallenterà; che, se non avverrà, il sostegno esterno su cui si appoggia l’economia americana, non resisterà.

È quanto è avvenuto la settimana scorsa; ad innescare il fenomeno è stata una causa accidentale: l’annuncio dato nella Germania Federale della istituzione di una ritenuta alla fonte del 10 per cento sugli interessi che ha suscitato una spinta verso l’alto dei tassi. È stata la consueta reazione dei mercati a questo tipo di fiscalità. Un altro esempio di questa reazione è fornito da ciò che si è riscontrato in Italia di recente: il raddoppio dell’aliquota della ritenuta sui titoli di Stato, dal 6.25 al 12.50 per cento, ha prodotto il rialzo del rendimento dei titoli stessi in modo da compensare completamente, per le persone fisiche, l’inasprimento fiscale.
Le cause di natura non fugace della esistente incertezza sono più profonde ed affondano le radici nelle contraddizioni che si sono accumulate negli anni successivi al 1982, quando gli Stati Uniti hanno cominciato ad ammassare disavanzi della bilancia dei pagamenti che hanno condotto questo paese ad essere il più grosso debitore netto del mondo. Che il disavanzo commerciale degli Stati Uniti debba essere ristretto è opinione condivisa; progressi in questo senso sono stati compiuti: le esportazioni americane in quantità sono aumentate più delle importazioni. In termini monetari il disavanzo resta elevato e tende ad aumentare; gli annunci mensili sono attesi con ansia e quando deludono, come è accaduto la settimana scorsa, persuadono che le cose non possono andare avanti così e che qualche cosa di più risolutivo dovrà essere fatta. Ma che cosa? Il disavanzo commerciale può essere contenuto con un aumento delle esportazioni dagli Stati Uniti.
Ciò richiede che la produzione in questo paese cresca più della domanda interna; essendo l’economia ai limiti della capacità, la conseguenza sarebbe un rialzo dei prezzi, che prima o poi comprometterebbe la competitività delle merci americane. Maggiori esportazioni sarebbero possibili verso i paesi dell’America Latina; ma questi paesi vengono sollecitati ad acquisire avanzi commerciali per pagare i loro debiti.
L’alternativa è la diminuzione delle importazioni, che si può ottenere: con produzioni sostitutive delle importazioni; con un rallentamento della domanda; con la protezione doganale. Aumentare l’offerta di prodotti per sostituire quelli importati in una economia che è ai limiti del surriscaldamento, produrrebbe le medesime conseguenze inflazionistiche sopra ricordate. Un rallentamento della domanda propagherebbe impulsi recessivi.
La protezione doganale, fra tutti i rimedi, è il più agevole ed è anche il più popolare. Un persistente disavanzo dei pagamenti con l’ estero dell’ordine di grandezza di 12 o 13 miliardi di dollari al mese, suppone la continuità di afflusso di capitali privati di pari entità; in sua mancanza, presume un apporto di capitali ufficiali e cioè di valute estere fornite dalle banche centrali in contropartita di compere di dollari; l’ opinione dei mercati, in assenza di conferme di statistiche ufficiali, è che quest’anno le banche centrali hanno acquistato 80 miliardi di dollari e questa cifra spaventa.
Nessuna meraviglia che spostamenti di rapporti tra tassi di interesse anche piccoli evochino immagini di eventi gravi accaduti nel passato. Leonard Silk del New York Times ha ricordato che qualora il differenziale del rendimento delle azioni delle 500 maggiori imprese quotate allo Stock Exchange di New York rispetto al rendimento delle obbligazioni dovesse ristabilirsi sul livello di 20 anni fa, le quotazioni dovrebbero calare del 40 per cento.
Ha ricordato infine che il rapporto prezzi-profitti delle stesse imprese era questa estate 22 contro 19,9 nel 1929 e i dividendi rispetto ai prezzi erano del 2,6 per cento contro il 3 del 1929. Da queste analogie non ha dedotto che accadrà ciò che accadde. È certo che le autorità monetarie non commetteranno gli errori del 1929; non è impossibile che ne commetteranno di diversi; è probabile che la collaborazione fra loro, nonostante qualche atteggiamento sgarbato del segretario del Tesoro americano, eviterà convulsioni di grande portata. Il comportamento dei mercati dimostra però che non condividono questa fiducia.