Giochi di parole: sette storie da Tokyo 2020. Una Olimpiade indimenticabile

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I Giochi scandiscono il tempo della nostra vita. L’edizione di Tokyo racconterà a lungo le nostre vite fuori tempo. Un’Olimpiade è un intervallo certo, descrive quattro anni di programmazione, sacrifici, ambizioni. Questi invece sono stati Giochi consumati in data sbilenca per la prima volta: rinviati quando il mondo si è fermato per il virus, hanno rischiato di sparire definitivamente: lo auspicava la maggioranza dei giapponesi nei sondaggi. Viaggiando in direzione ostinata e contraria al comune sentire, fra stadi vuoti, protocolli cervellotici, rinunce eccellenti, l’imbarazzo degli sponsor che hanno preferito nascondersi e l’impossibilità acclarata di sanare le perdite dei costi aggravati dalla pandemia, Tokyo ha voluto celebrarli lo stesso, anche per sfuggire alla maledizione del 1940 e delle Olimpiadi saltate per la seconda guerra sino-giapponese.

Abbiamo scelto sette parole chiave dei nostri inviati per il racconto conclusivo di Tokyo 2020. L’Italia ricorderà, certo, il suo record di medaglie totali, 40, e le imprese di atleti arrivati dove mai un azzurro si era spinto. Ma al di là dei riflessi dei metalli al collo, quest’edizione ha raccontato storie di resistenza e di redenzione, di valori familiari da custodire o ricercare, e di demoni interiori con cui fare i conti nella solitudine dell’ultimo esercizio, senza mai firmare la resa. 

Erano i Giochi del silenzio. Si sono conclusi con un urlo prepotente di ritorno alla vita.

Arigato

di Giampaolo Visetti

Il 23 luglio, in uno stadio nazionale deserto, i Giochi di Tokyo sono stati dichiarati aperti dall’imperatore Naruhito. L’8 agosto, in una cornice sempre vuota, le Olimpiadi sono state dichiarate chiuse da suo fratello, il principe Akishino. Nel 1964 loro nonno, il “Tenno” Hirohito, aveva sia aperto che chiuso l’evento a cui Tokyo aveva affidato la missione di riportare la nazione dentro la comunità internazionale dopo il massacro della Seconda guerra mondiale. Dopo 57 anni, il silenzioso linguaggio dei gesti ha segnalato una presa di distanza della famiglia imperiale dai Giochi ottenuti invece per esibire, a dieci anni da un altro disastro atomico, la ricostruzione del Paese dopo Fukushima. A pesare oggi, la riesplosione del Covid in Giappone con il passare dei giorni e delle gare. L’ingresso in una nazione blindata di quasi ventimila stranieri, tra atleti e accreditati, è coinciso con la diffusione della variante D: oltre diecimila al giorno i nuovi contagiati, punte superiori a cinquemila solo a Tokyo. Dentro la bolla del Villaggio olimpico i positivi sono stati oltre 400, più di 1 milione i giapponesi attaccati dal virus nell’ultimo anno e mezzo. Lo stato di emergenza è stato prolungato ed esteso a una decina di prefetture. Per la prima volta nella storia le Olimpiadi si sono svolte con un anno di ritardo, a porte chiuse, dentro un Paese barricato in casa per ragioni sanitarie e circondate da una diffusa ostilità collettiva.

Mercati finanziari e cancellerie straniere temevano di assistere a un altro harahiri, al cedimento delle autorità giapponesi all’istinto politico kamikaze che spesso ha segnato la loro storia dell’ultimo secolo. La scommessa invece, per ragioni in buona parte imprevedibili, alla fine è stata vinta. Tokyo 2020 ha dimostrato al mondo che oggi è possibile ospitare il più importante evento sportivo del pianeta anche in un luogo sconvolto dalla pandemia, senza che il suo reinnesco sia il prezzo da pagare. Gli exploit degli atleti di casa, con il record di sempre nel medagliere solo alle spalle di Usa e Cina, ha scatenato l’euforia nazionale e l’ottimismo degli investitori. Il Giappone, dopo un trentennale tramonto che sembrava inesorabile, ha riacquisito centralità e peso sia nei dossier politici che nello scambio economico. Il controllo del virus in una superpotenza dell’Asia è stato il successo olimpico più importante a livello globale: non solo non era previsto, ma è stato un’impresa imitabile da pochi. Illudersi che il resto del mondo possieda le qualità e le caratteristiche che distinguono il Giappone sarebbe un errore fatale. Mai come nel corso di queste Olimpiadi la tecnologia e le potenzialità digitali sono state applicate sui campi di gara, per la sicurezza e nel frenare l’accelerazione delle varianti del virus. L’organizzazione si è rivelata imponente: ha reso difficile la quotidianità di tutti, ma nessun partecipante ricorda qualcosa che non ha funzionato.

L’imperatore Naruhito alla cerimonia di apertura dei Giochi. Tokyo, 23 luglio 2020 

Il sistema-Shinkansen, fondato sui treni proiettile che spaccano il secondo, all’estero è un modello di Stato conosciuto da tempo. Il punto cruciale è che solo il Giappone, grazie alla sua disciplina collettiva e al valore del sacrificio che domina la vita individuale, è fino ad oggi riuscito a realizzarlo senza rinunciare alla cornice democratica delle sue istituzioni, come invece in Cina. In autunno il Paese tornerà alle urne: i giapponesi, votando, saranno liberi di giudicare anche i Giochi appena conclusi, voluti dall’attuale classe dirigente. In base ai sondaggi è probabile, a impresa conclusa, un cambio alla guida della nazione.

L’ossessione per la perfezione non si è limitata al contesto. Ha contagiato gli atleti giapponesi, chiamati a giustificare con le vittorie gli investimenti e gli sforzi di tutto il Paese per renderle possibili. Tecnologia, organizzazione, fiducia nella scienza e successi sono i princìpi attivi dell’antidoto che si è rivelato resistente al Covid, al pessimismo e all’iniziale ostilità verso queste Olimpiadi. In poco più di due settimane l’atmosfera di Tokyo è cambiata e anche il resto del mondo, incollato davanti alla tivù, ha visto che una convivenza tra vita, ripresa e virus è realizzabile. In Giappone però il segreto non è un brevetto da proteggere, ma una ricetta antica. La gente in ogni caso sorride e non rinuncia alla gentilezza. Resteranno nella storia come i Giochi “nonostante la pandemia”: tutti però ricorderanno che Tokyo è riuscita a vincere la sua scommessa perché l’ha affrontata con il sorriso sulle labbra. Il premier Yoshihda Suga alla fine ha spiegato perché il Giappone ancora una volta è riuscito ad essere il Giappone. “Lo avevamo promesso al mondo – ha detto – gli impegni vanno mantenuti ad ogni costo”. Si chiama credibilità. La ricetta non è più segreta: imitarla ora è l’impresa che spetta agli altri.

Limite

di Maurizio Crosetti

Limite è una parola che non esiste: lo abbiamo imparato in due settimane illimitate, quando abbiamo vinto dove mai ci eravamo riusciti, in discipline che mai avevamo portato su un podio olimpico, con atleti che non avevamo ancora conosciuto. Il limite ignoto. Eppure dovevano essere i Giochi con più limiti di sempre, e per certi versi lo sono stati. Il limite come divieto: non si esce liberamente, non si prendono i mezzi pubblici, non si occupano certi spazi, non si parla da vicino, non si parla al vicino, non si va al ristorante o al bar, non si esce dalla bolla. Ci sono stati atleti espulsi da Tokyo per averlo fatto, c’è chi ci ha rimesso l’Olimpiade per andare a cercarsi un panino dall’altro lato della strada. Una gabbia innaturale e per larga parte inevitabile, se non indispensabile, non sempre necessaria ma obbligatoria. Eppure, più la gabbia è stretta, più l’essere umano trova modo di uscirne anche nel pieno rispetto della legge. Per esempio, vincendo l’invincibile. Nell’estate di Matteo Berrettini in finale a Wimbledon, primo italiano nella storia, e dell’Europeo vinto a Wembley contro gli inglesi, si aveva qualche sospetto che la parola “limite” fosse ormai un concetto astratto, qualcosa di lieve e sfumato: in Giappone, molte cose lo sono. E sin dall’inizio, da quell’oro magnifico di Vito dell’Aquila, i nostri atleti hanno ribadito che il limite esiste solo per chi lo accetta.

La delegazione italiana alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici. Tokyo, 23 luglio 2021 
Dalla cerimonia di apertura a quella di chiusura, l’Olimpiade azzurra è stata tutta una catena di prime volte, di vette violate, di Lune conquistate, di limiti abbattuti. Quanto oro, mai estratto prima dalla miniera dello sport, si è messo a brillare. Mai avevamo sollevato pesi così, mai una nostra pugile era arrivata sul podio, mai le canottiere azzurre avevano preso un oro, mai una marciatrice. Abbiamo insegnato il karate ai giapponesi: di più è impossibile. Anzi sì: abbiamo insegnato agli americani, ai giamaicani e agli inglesi come correre più veloci. La caduta dei limiti è la statua di un dittatore che un giorno viene abbattuta. Il momento più fortemente simbolico è stata la finale dei 100 metri, cioè i dieci secondi scarsi più densi di ogni Olimpiade. Mai un italiano era arrivato là: ebbene, quei 100 metri li abbiamo addirittura vinti. La forza di quanto accaduto è formidabile, perché dice a ognuno di noi che l’impossibile è possibile. Lo dice al ragazzino che si iscrive alla prima gara della sua vita, e all’anziano che prova a rimettersi in piedi dopo una difficile malattia. Il corpo è un mistero, uno scrigno, un contenitore di possibilità.

La potenza dell’impossibile ce l’hanno dimostrata le medaglie dell’atletica, sommo sport nel quale a Rio non avevamo preso niente. Ce l’hanno mostrata le atlete che mai, prima, erano salite sul meraviglioso gradino. Mai il Molise aveva portato una donna ai Giochi, e quella donna è tornata a casa con una medaglia al collo. Mai una marciatrice aveva vinto l’oro: c’è riuscita la ragazza con il fiore tra i capelli. Mai una donna italiana aveva preso e dato pugni per arrivare così lontano. Doveva accadere nelle Olimpiadi del mondo chiuso, e insieme apertissimo. Ci sono atleti che, nella loro prima volta, non hanno mai avuto idoli azzurri vincitori. E allora hanno scoperto di poter essere loro gli idoli di sé stessi, e dei ragazzini che adesso sanno quale fotografia mettere sullo schermo del cellulare: una volta si appendevano i campioni al muro della cameretta, i poster non esistono più ma la magia è la stessa. Gli azzurri senza limiti hanno camminato da soli su un pianeta sconosciuto e sono arrivati lontano. Un piccolo passo per loro ma un grande passo per l’umanità del nostro sport, davvero.

Gli atleti come esploratori dell’estremo, pionieri in terre sconosciute. Come i primi astronauti, come chi arrivò un giorno sull’Everest o al Polo Sud. Tutti un po’ Marco Polo, in fondo il vero padre spirituale degli azzurri a Tokyo, anche lui un italiano venuto da lontano per conquistare l’Oriente. E se ogni viaggio abbatte anche i limiti della conoscenza ed è un colpo mortale al pregiudizio, forse queste incredibili “prime” Olimpiadi dell’Italia avranno insegnato a guardare allo sport con occhi nuovi, e magari a praticarlo con un cuore più aperto e leggero. Perché è molto bello correre incontro al limite per abbatterlo, è molto importante oltrepassare per la prima volta una frontiera, meglio ancora se passandosi il testimone, sapendo che anche altri, adesso, potranno provarci. Senza confini e barriere. Senza limiti.

Covid

di Mattia Chiusano

CIO e CLO, la santa alleanza per riuscire a concludere un’Olimpiade sotto pandemia. Da una parte la volontà ferrea del comitato olimpico internazionale (CIO), deciso a fare comunque i Giochi rinviati di un anno e messi sotto pressione dalle varianti del virus. Dall’altra, il protocollo giapponese inventato per tenere sotto controllo il comportamento della famiglia olimpica che stava per atterrare in un paese molto scettico: creando la figura del Covid-19 Liaison Officer (CLO), che ha trasformato allenatori, giornalisti, tecnici, in infermieri, programmatori di eventi olimpici e di test salivari per i loro team, esperti a cui rivolgersi sull’uso corretto di mascherine e app giapponesi. Dietro le quaranta medaglie italiane, questa è stata la vera grande novità di Tokyo.  Se ci sono molte forme di esprimersi in giapponese (la lingua delle donne, degli uomini d’affari, dei malavitosi), durante le settimane olimpiche una delle lingue più diffuse ha unito i partecipanti di tutto il mondo con termini misteriosi per chi non ne faceva parte: Ocha, Activity Plan, Cocoa, Written pledge, Day 14, chartered taxi, Cleared, 3 days quarantine, Playbook, Icon. Il depositario di questa lingua per eletti era ovviamente il CLO, che magari nella vita faceva altro ma per le autorità giapponesi è diventato un punto di riferimento, anche sanitario. Alle prese con una burocrazia senza volto, che si manifestava nella notte, all’alba, con l’invio di manuali da 79 pagine e mail minacciose che richiedevano ulteriori adempimenti da soddisfare in tempi ristretti, pena la bocciatura della pratica e la conseguente mancata partenza del collega con le valigie pronte. Un supplizio che ha tolto il sonno a tanti e spinto 1800 giornalisti accreditati su 6000 a rinunciare.

Il trionfo del Coni a Tokyo nasconde l’elaborazione e l’approvazione all’ultimo minuto di 784 activity plan, fogli Excel che contenevano alcuni dati come: tipo di quarantena scelta, hotel, codici degli impianti olimpici e di altri siti (Casa Italia, ambasciata) in cui gli inviati si sarebbero recati. Facile? Al team di Repubblica sono stati bocciati gli AC anche 5 volte, ognuno con una formula diversa, con Koichi che contraddiceva quel che aveva scritto Maki nello stesso giorno. Poi Ocha, la app sullo stato di salute che già sette giorni prima della partenza andava nutrita con dati sulla temperatura corporea, l’uso di antipiretici, gli eventuali sintomi (l’essere affaticati era un motivo che poteva innescare un meccanismo di controllo con nuovi tamponi, ma chi non è stanco durante un’Olimpiade con 7 ore di fuso di differenza?). Chi aveva Ocha con la schermata rossa, veniva accolto in ristoranti dedicati da un personale che sembrava uscito dal reparto malattie infettive di un ospedale: visiera, guanti chirurgici, mascherina, in alcuni casi occhiali ad alta protezione. Ma al decimo giorno (dovevano essere 14) è scattato il verde su Ocha, siamo diventati Cleared, ammessi in un meraviglioso ristorante di tipo hawaiano.

Il punto di raccolta dei test Covid-19 in un centro stampa delle Olimpiadi. Tokyo, 22 luglio 2021  
La sublimazione del CLO, figura chiave dietro alla caccia alla medaglia e al reportage di qualità, si raggiungeva con le provette per i test salivari, che il malcapitato doveva procurarsi e distribuire ai colleghi secondo il seguente calendario: giorno 1, 2, 3, 7, 11, 14, 18 (per gli atleti l’obbligo era quotidiano). Nella data fatidica bisognava sputare abbondantemente nella fialetta, ma solo dopo mezzora senza bere, mangiare, fumare, lavarsi i denti. È scattata così una solidarietà della provetta, tra colleghi che si trasportavano a vicenda i campioni salivari verso siti olimpici dove i volontari sedevano di fronte ai contenitori di raccolta. Partendo per il Giappone chi non ha temuto Cocoa, la app di tracciamento, l’occhio del governo sugli spostamenti non autorizzati? Nei giorni con Ocha in rosso ci si poteva muovere solo con mezzi dell’organizzazione e all’interno del circuito olimpico, seguiti in chissà quale sala operativa attraverso il bluetooth. Ma alla lunga la burocrazia ha cominciato ad avere un volto, sempre più pacioccone, affabile. I manuali sono stati sostituti dagli inchini e dalla gentilezza dei volontari, Tokyo non è stata più una città ostile e si è abituata agli ospiti con l’accredito plastificato al collo. Così nell’anno 2021 i Giochi sono diventati realtà: magari un laboratorio per il futuro che ci attende, se il termine Ocha viene sostituito da Green Pass.

Mente

di Fabio Tonacci

Le Olimpiadi della nostra fragilità. Mai come a Tokyo abbiamo visto i più talentuosi e preparati atleti del mondo implodere ancor prima di gareggiare. Gli dei cadono tra i comuni mortali quando nel corpore sano la mens vacilla. Non è questione di fisico, ma di fisica dell’anima, di forze di gravità esistenziali che appesantiscono il gesto, rendono il rovescio monco, la mira imprecisa, il salto malfermo, le gambe tremanti.

Simone Biles sentiva i demoni nella testa e a quei demoni ha dato anche un nome: twisties, sensazioni di vuoto durante il volteggio. Un blocco mentale che aveva già avuto nel 2014. La superstar giapponese Naomi Osaka, scelta dal suo Paese come ultima tedofora, è uscita al terzo turno del torneo di tennis perché schiacciata dalle aspettative. Il nostro Federico Burdisso a pochi minuti dalla finale dei 200 farfalla, in cui è arrivato terzo (primo italiano a medaglia in questa specialità), voleva abbandonare la vasca per lo stress. La giovanissima Benedetta Pilato, 16 anni, campionessa europea e primatista mondiale sui 50 metri stile rana, si è fatta squalificare nella batteria dei 100 metri. “Avevo l’ansia”. Alla tiratrice Diana Bacosi tutto il buio della sua vita è riapparso un secondo prima del piattello decisivo, che è volato via intonso. E che dire di Djokovic, il numero uno assoluto? In semifinale contro Alexander Zverev, quinto nella classifica Atp, aveva la partita in pugno, conduceva il secondo set 3 a 2 dopo aver vinto agevolmente il primo. Si è spento da un momento all’altro. In poco più di mezz’ora ha perso 8 game di fila e il sogno del Golden Slam. Il serbo non ha neanche trovato le parole per descrivere il suo appannamento. I buchi neri esistono anche dentro i campioni, divorano tutto ed è difficile spiegarli. I Giochi che si sono appena conclusi sono stati pure questo: l’ammissione in pubblico della fallibilità umana. L’era delle macchine da sport rocciose e prive di emotività, che tanto piace ostentare ai regimi e alle superpotenze, è finita. Il fuoriclasse soffre di ansia, ora lo ammette e sa fare un passo indietro. La salute mentale prima della integrità muscolare.

Simone Biles, durante l’esercizio alla trave nella finale delle Olimpiadi. Sarà medaglia di bronzo. Tokyo, 3 agosto 2021 
Prendiamo Simone Biles, la più attesa alle Olimpiadi, la copertina prestampata di Tokyo 2020. La partecipazione della 24enne dell’Ohio doveva essere una marcia trionfale, è diventata una strada in salita. Si ritira dalla finale a squadre dopo una sola rotazione al volteggio. La federazione americana sulle prime annacqua la verità adducendo imprecisati “motivi medici”, poi Simone esce allo scoperto su Instagram. “A volte mi sento davvero come se avessi il peso del mondo intero sulle mie spalle, so che lo spazzo via e faccio sembrare che la pressione non mi colpisca, ma dannazione, a volte è difficile e le Olimpiadi non sono uno scherzo”. Abbandona tutte le competizioni tranne la trave, dove riesce a prendersi il bronzo. Non sono eventi isolati, è già successo. Michael Phelps, il mostro del nuoto che a Pechino vinse 8 ori e da solo sul medagliere si posizionò prima della Francia, del Canada e del Brasile, ha dovuto passare mesi in una clinica riabilitativa in Arizona per problemi di ansia e depressione. A Tokyo, però, l’equilibrio dei numeri primi è stato più precario che in passato.

Il mental coach Stefano Massari, all’Huffington Post, l’ha spiegata così. “Le Olimpiadi sono in assoluto la competizione in cui c’è più tensione, il loro potere simbolico è superiore a qualsiasi altra manifestazione sportiva. L’assenza del pubblico a Tokyo può aver creato problemi a quegli atleti che dalla gente sugli spalti traggono ispirazione ed energia. In ultimo il tema del Covid, l’ansia di risultare positivi e la possibilità che si debba sospendere la prestazione. Tre elementi che hanno contribuito ad aumentare la tensione”. Le grandi aspettative, certo. Ma anche la vita personale che bussa e pretende la sua parte di concentrazione. La mental coach di Marcell Jacobs, per liberare il velocista azzurro dai suoi demoni e farlo correre più veloce, non gli ha parlato di momenti di gloria. Gli ha detto di recuperare il rapporto col padre americano che non aveva mai conosciuto. “È stata la chiave del mio successo”, ha detto Jacobs dopo la storica impresa nei 100 metri. Quando dentro di te tutto non è sistemato al posto giusto, anche il mirino diventa sfocato. Diana Bacosi a Rio nel 2016 aveva vinto l’oro nello skeet, il tiro al piattello col fucile. Un mese prima di volare a Tokyo la tiratrice umbra 38enne era in fondo a un pozzo, esistenziale e personale. “Un periodo nerissimo”. Aveva perso 30 chili, non usciva di casa e a stento si presentava al poligono. Questioni private, roba di famiglia. Il direttore tecnico azzurro Andrea Benelli si è calato in quel pozzo per andare a riprenderla col cucchiaino. All’Asaka Shooting Range la seconda medaglia d’oro è sfumata nell’ultima serie di dieci piattelli, quando tutto ciò che sei e hai dentro torna su e ottunde i sensi.

È la maledizione dell’ultimo colpo. “La testa mi ha giocato un brutto scherzo”, ha raccontato Bacosi. “Mi dicevo: non pensare che vai per l’oro, non pensare che vai per l’oro…e invece il mio periodo nero si è riaffacciato chiedendomi il conto”. E quando un tiratore professionista invece di consegnarsi all’istinto si mette a pensare, si scopre fragile, impreciso. Umano.

Famiglia

di Cosimo Cito

Keiro No Hi. Tokyo 2020 è stata una grande, enorme festa degli avi. In Giappone gli anziani si festeggiano il terzo lunedì di settembre. In quella occasione il Governo regala ai centenari una tazza da sakè d’argento e i bambini hanno un giorno intero per viaggiare e ricongiungersi con i nonni lontani. Nell’ultimo episodio di Sogni, un film di Akira Kurosawa, il protagonista di reca in un idilliaco villaggio dei mulini e lì incontra un anziano che gli racconta la storia di quel posto: “Qui nessuno cerca la felicità, perché tutti l’hanno già trovata”. Il rispetto per gli anziani, per la loro saggezza, è uno dei principi guida della società giapponese, e come da noi i nonni sono il vero Welfare del paese. Questa Olimpiade è stata il giusto riconoscimento a tanto silenzioso, infinito lavoro di cucitura tra le generazioni e se ne sono ricordati gli atleti, mentre festeggiavano una medaglia. Il primo pensiero di Marcell Jacobs dopo la vittoria nella finale dei 100 metri è stato per “mio nonno che non c’è più”. Se n’era ricordato all’istante, dopo il suo oro nel taekwondo Vito Dell’Aquila: “Mio nonno mi guardava da lassù, era certo che avrei vinto”. E così Mirko Zanni, bronzo nel sollevamento pesi: “Lui era con me sotto il bilanciere, lo abbiamo tirato su insieme”. Nino Pizzolato ha evocato tutti i suoi nonni “Baldassarre, Ninfa, Antonino e Antonietta, sono scomparsi da poco ma sono sempre con me”. E la judoka Odette Giuffrida: “Ho chiamato mio nonno, ha detto che la medaglia da bronzo me la pitturerà d’oro”. Tutto questo è stata l’Olimpiade degli affetti, quella delle distanze infinite accorciate dalla tecnologia. Ai bordi dei campi di gara c’erano spesso grandi schermi collegati con le case degli atleti, loro potevano interagire con familiari e amici, mandare baci in videochiamata, vederli festeggiare, come se fossero stati in tribuna.

Alice Bellandi ha rimpianto l’assenza della sua ragazza, Chiara, “c’è il Covid, ma ci chiamiamo continuamente ed è come se fosse qui”. In video ha mandato il suo messaggio d’amore Sanne, la fidanzata dell’arciera azzurra Lucilla Boari: “I love you so much”. I Genitori di tutte le Farfalle della ritmica azzurra si sono riuniti a Spoleto, a casa di Agnese Duranti, per vedere le proprie figlie danzare e vincere il bronzo. Chiamarsi era tornare a casa per un attimo e per loro essere a Tokyo: WhatsApp e Zoom sono stati determinanti per riannodare i fili dell’amore e della vicinanza, restituire una parvenza di normalità a un’Olimpiade diversa, incentrata sulla dicotomia presenza/assenza, con spalti vuoti in templi come il Budokan, ribollenti fino a due anni fa, a prima del Covid. Lì ci suonarono i Beatles e nel Novecento si sono scritte, tra le urla di approvazione dei giapponesi, pagine di storia delle arti marziali. E così alla Kokugikan, la cattedrale laica del Sumo, prestata alla boxe. Là Irma Testa ha vinto il suo bronzo e dedicato pensieri a Torre Annunziata, alla sua gente, ai suoi cari. L’Italia si è riscoperta paese di padri, di madri, di zii e di nonni che aspettano con uno sguardo all’orologio la fine dell’ora di ginnastica, di karate, di judo, l’ultima vasca o l’ultimo giro di pista, “com’è andata oggi?”, “bene, che c’è per cena stasera?”. È iniziata così questa Olimpiade, molti anni fa, senza telecamere e senza social, per pura passione spesso ereditata.

JaVale e Pamela McGee 
Per la prima volta un figlio, JaVale McGee, ha conquistato un oro nel basket come sua madre Pamela a Los Angeles ’84: è stata la prima coppia madre-figlio a riuscire nell’impresa tra Giochi estivi e invernali. Non hanno meravigliato le gemelle Averina nella ritmica, Dina solo argento, Arina fuori dal podio: i genitori tifavano per loro dalla loro dacia di Zavolze, sulle sponde del Volga, e hanno ricordato gli infiniti viaggi fino a San Pietroburgo e Mosca su vecchie auto scassate. La madre di Daniela Mogurean è partita dalla Moldavia su un pullman per cercare lavoro in Veneto. Ha regalato un avvenire a sua figlia, bronzo nella ritmica con le altre Farfalle azzurre: “Questa medaglia è sua”. La madre di Fausto Desalu ha declinato un invito in tv, sulla Rai, “mi piacerebbe ma devo lavorare, ho un’anziana da accudire stasera, lo faccio tutti i giorni”. Suo figlio era appena diventato campione olimpico della 4×100. Nella lotta libera hanno vinto due sorelle in due diverse gare a distanza di poche ore, Risako e Yukako Kawai, ed entrambe hanno detto “arigato” a papà e mamma, e poi l’un l’altra: il loro tinello di casa è stato la loro prima Makuhari Messe. Jessica Springsteen ha dedicato l’argento nell’equitazione a suo padre Bruce e sua madre Patti Scialfa. Born to ride. In questa immensità affatto retorica si è annegata la meraviglia di questi Giochi perduti in una dimensione parallela, fisicamente irraggiungibili, confinati tra muri di prudenza, governati da app astruse. Si sarebbero potuti svolgere sulla Luna, sarebbe stato uguale, e forse il segnale wi-fi arriva anche lì. 

Fede

di Alessandra Retico

Il pugno destro stretto sulla bocca, il pollice sulle labbra, l’altro appoggiato sulla corsia. Nella mano sinistra la fede all’anulare e la cuffia nera. Sono le 10.39 del 27 luglio 2021, qui Tokyo. In Italia è buio pesto, 7 ore in meno, ma pochi dormono. Di certo non a Spinea, tra i 28mila abitanti del paese dell’hinterland veneziano c’è una casa con una luce azzurrina che illumina il tinello, la tv è accesa da 72 ore, due bottiglie di vino rosso aperte sulla tavola. Interno notte, famiglia Pellegrini. Papà Roberto e mamma Cinzia piangono. Piange anche la loro creatura a 9569 chilometri di distanza. Federica laggiù, colata nelle viscere di una piscina, il suo grembo. Ma questa sarà la penultima volta dentro le quattro vasche che l’hanno disegnata a dismisura. Due metri di stile libero, liberissimo. Dentro questo rettangolo scavato in quella che somiglia a una foresta di bambù, sotto un tetto piegato come un origami, Fede sfoglia e piega la sua vita. Gli occhi chiusi, qualche segno sul viso. Manca poco più di una settimana ai suoi 33 anni. Venti li ha passati inzuppata nel cloro. Questo istante è per sempre. Ha appena toccato il muro e l’ha buttato giù, un’altra frontiera superata, l’ennesima, nessuna come lei nella storia del nuoto è riuscita ad entrare in una finale nella stessa gara per cinque Olimpiadi di fila. Solo un uomo, a forma di squalo: Michael Phelps (200 farfalla).

Scalza, camicia bianca, gambe nude, di profilo a guardare da un grattacielo l’alba afosa sulla città. Tubino nero, tacchi, le vene gonfie sui piedi, la frangetta pettinata, alle spalle lo skyline puntinato di luci di un notturno giapponese. Maglietta bianca, gilet nero, mascherina rosa: “Je m’engage à servir le Mouvement Olympique au mieux des mes capacité” giura tenendo in mano la bandiera a Cinque Cerchi. Sale sul palco della cerimonia di chiusura allo stadio olimpico. La seconda vita è iniziata subito. Neanche il tempo di uscire dall’acqua, Federica è già di nuovo sui blocchi. Eletta membro del comitato olimpico internazionale in rappresentanza degli atleti fino a Los Angeles 2028. Entra anche nella Giunta e nel Consiglio nazionale del Coni. Ha fatto volantinaggio nella mensa del Villaggio, ha raccolto 1658 preferenze tra i 6825 sportivi votanti.  Ha rinviato il ritorno a casa a Verona previsto per festeggiare il suo compleanno, ha rimandato l’uscita di scena prolungando la scia. Ha spento a Casa Italia l’unica candelina sulla torta che riassume tutto quello che c’è stato fin qua: l’argento ad Atene 2004, aveva 16 anni e 12 giorni, la più giovane medagliata azzurra ai Giochi; l’oro a Pechino 2008, 4 Mondiali (sempre sul podio in 8 edizioni, altro primato) e 11 record del mondo infranti tra cui quello nei 200 che neanche l’australiana Ariarne Titmus, 20 anni, è riuscita a toglierle (1’52”98, Roma 2009). Thank you. Il capo dello sport italiano, Giovanni Malagò, presidente onorario anche dell’Aniene, società di Federica, apre lo spumante e la chiama collega. Ha lavorato molto per tenerla stretta al fianco, chissà se anche per sostituirlo quando nel 2025 si rinnoverà il governo di piazza Lauro de Bosis. 

Il post di ringraziamento su instagram di Federica Pellegrini, eletta membro del Cio. Tokyo, 4 agosto 2021 (ansa)
Katie Ledecky la abbraccia e sussurra alla donna che ha parlato all’acqua: “congrats“. L’americana, 24 anni, è solo quinta nell’ultima finale di Fede. Sa che sta per finire un’epoca col 7° posto di Pellegrini che vale più di un oro. La last dance della signora dei Giochi si è appena conclusa. Le luci si spengono in corsia, la prima ballerina non esce sulle punte. “Sono proprio contenta, sono in pace. Mentre nuotavo non si vedeva ma avevo il sorriso, quando ho toccato ho detto bene adesso ho finito, quindi? Quindi è davvero il momento giusto, mi hanno sempre detto che queste cose si capiscono, proprio come accendere e spegnere la luce, in questi giorni ho capito che ho dato tutto il possibile per questo sport e ho preso tutto quello che potevo prendere, non c’è nient’altro da dire”. Ah sì, c’è da dire finalmente dell’amore. Dopo il titolo mondiale in Corea del Sud, nel 2019, Fede avrebbe voluto baciare Matteo Giunta. Ma all’epoca lui era ufficialmente solo il suo allenatore. L’oro era già innamorato, quest’alba a levante non lo nasconde più.      

Addio

di Ettore Livini

Addio Olimpiadi. Lasciare non è facile. Ma il finale di una storia di sport è importante come il resto della trama. E a Tokyo 2020 – i Giochi della generazione Z, dello skateboard e del surf – tanti grandi vecchi a cinque cerchi hanno salutato la scena dopo l’ultimo show. Qualcuno vincendo, tanti perdendo con stile, molti in lacrime, tutti tra gli applausi. 

Oksana Chusovitina, per dire, non ha mollato fino all’ultimo volteggio. È salita in pedana. Ha guardato dall’alto dei suoi 46 anni le giovanissime rivali nel parterre. Ha preso la rincorsa ed è volata via leggerissima sul cavallo. Quando è atterrata, sbilanciandosi un po’ a sinistra, si è concentrata sul tabellone, come ha fatto in mille salti e sette Olimpiadi. Risultato: 14,166. Niente finale. Ma nel silenzio dell’Ariake Center senza pubblico è partito un applauso generale come fosse un salto da oro. Standing ovation, la regina della ginnastica se ne va. Lei – esordio a Barcellona ’92, cinque anni prima che nascesse Simon Biles –  ha versato qualche lacrima facendo il cuore con le mani. “Sono viva, felice, in salute e cammino sulle mie gambe”, ha salutato, volteggiando con grazia fuori dai Giochi.

Oksana Chusovitina, gareggia al volteggio durante la qualificazione femminile. Tokyo, 25 luglio 2021  
Jesus Angel Garcia l’addio ha dovuto sudarselo di più. Alle 5.30 del mattino del 6 agosto si è presentato al via della 50 km di marcia di Sapporo. Alle Olimpiadi ha debuttato un’era geologica fa, nel ’92. Nessuno dei finalisti dei 100 metri a Tokyo era ancora venuto al mondo. Non ha mai preso una medaglia, ma in Spagna è un mito. “Quando ero giovane ero troppo impulsivo, ora che ho l’esperienza, non ho più la gioventù”, si è giustificato. Ha dato un’occhiata al meteo (30 gradi, 84% di umidità), ha sbuffato ed è partito. Tacco punta, tacco punta, un chilometro, due dieci, trenta. Al cinquantesimo sono arrivati in 47 su 59. Molti atleti che potrebbero essere suoi figli hanno gettato la spugna. Garcia no. Ha tagliato il traguardo quando il vincitore – arrivato da 20 minuti – era sotto la doccia. “Il cuore e le gambe mi dicevano di fermarmi. Ma non ho mollato, non me lo sarei mai perdonato”. E ora? “Finalmente farò il podoiatra, il mio vero mestiere”. E ciao.

Santiago Lange ha salutato i Giochi a 59 anni alla grande, vincendo. Il velista argentino ha esordito a Seoul noleggiando barca e salvagente. Nel 2014, perseguitato da una fastidiosa febbriciattola, è andato dal medico. Diagnosi: tumore al polmone. Lo operano, gliene tagliano un bel pezzo, “un incubo”. Respira male, fatica a muoversi sull’acrobatico Nacra 17. Ma va a Rio e vince l’oro. A Tokyo è arrivato sesto. “Il futuro è di altri, io lascio” ha detto commosso applaudendo i vincitori, Ruggero Tita e Caterina Banti, dopo la medal race finale. “Era l’ultima gara alle Olimpiadi, il primo posto era andato ma mi sono regalato una bellissima regata”. L’ha vinta.

Anche Olaf Tufte ha pianto, ma di rabbia. Il 45enne fenomeno del remo norvegese (sette Olimpiadi, due ori, un argento, un bronzo) si è presentato a Tokyo col quattro i coppia con un obiettivo solo: vincere. Non è nemmeno arrivato in finale. Per un agonista non proprio decoubertiniano come lui uno schiaffo. “Ai Giochi devi essere al massimo, il 90% non basta”. Che farà adesso? “Torno nella mia fattoria – ha raccontato ai mille microfoni che si è trovato sotto il naso dopo il traguardo – . Ho moglie, tre figli e un birrificio artigianale, coltivo io malto e luppolo”. Cin-cin e buona vita.

Qualcuno, ignorando la carta d’identità, non molla. “Perché? – confessa Andrew Hoy, 62 anni e bronzo nell’equitazione – . Sono in salute e della mia prima olimpiade rimpiango solo una cosa: ho perso i capelli”. I cavalli devono essere un Gerovital. Anche “nonna” Mary Hanna – cavallerizza australiana, 66 anni e quattro nipoti –  va avanti: “Arrivederci a Parigi. Sto già pensando a cosa fare per migliorarmi”. Chapeau e au revoir in Francia.

Andrew Hoy in sella a Vassily De Lassos, durante l’esercizio individuale di dressage. Tokyo, 2 agosto 2021 
Luis Scola non ci sarà. L’ultimo time-out del totem del basket albiceleste è arrivato a 59 secondi dalla fine dei quarti con l’Australia. L’allenatore ha chiamato il cambio. E un’onda d’emozione ha travolto la Saitama Super Arena. In lacrime i compagni, in piedi ad applaudire canguri, arbitri, giornalisti. “Il rispetto degli avversari è il più bel complimento” ha detto emozionatissimo Scola. Poi ha postato una foto su Instagram. Lui di spalle, palla sotto braccio, si incammina verso gli spogliatoi. “Me voy feliz, me voy orgulloso pero por sobre todas la cosas me voy en paz”. Verso una nuova vita, ma portandosi dentro la magia delle Olimpiadi.

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