Chi è Ashraf Ghani, il presidente “straniero” che non è riuscito a trasformare l’Afghanistan

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Sarà ricordato per aver abbandonato il suo Paese. Se ne è andato senza annunciarlo. Qualcuno pensa che abbia tradito, che avrebbe dovuto difenderlo fino alla fine. Lui ha detto che ha cercato di evitare un bagno di sangue. Perché per i talebani era diventata una cosa personale, volevano che lui si dimettesse. “Ho cercato di persuadere i talebani, ma la condizione per parlare con il governo era che Ghani, ritenuto il fantoccio degli americani, se ne andasse”, ha detto solo qualche mese il premier pakistano Imran Khan dopo aver incontrato una delegazione di talebani.

Di fatto il presidente Ashraf Ghani, PG (President Ghani) per gli amici, eletto due volte in contestate elezioni, negli ultimi giorni ha vissuto la resa dei conti. “Non ascoltava più, si era circondato solo delle persone di cui si fidava, ha commesso errori”, dice un alto funzionario dell’amministrazione del presidente (che parla in condizioni di anonimato). Non è riuscito a prendere le redini di un governo che gli scivolava tra le mani, impregnato di corruzione e incompetenza.

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Il suo mandato è stato accanimento terapeutico di un Paese a cui gli americani hanno staccato la spina. Per molti afghani oggi il presidente, che era “troppo intellettuale” per l’Afghanistan, ha mancato di rispetto a tutti. Perché ha lasciato prima di avere garanzie che la società civile fosse protetta, che i collaboratori degli alleati partissero, che l’Afghanistan non finisse completamente nelle mani dei talebani. Ha aspettato finché non fosse troppo tardi, lanciando messaggi televisivi che parlavano di unità e lotta, come se non si rendesse conto che i talebani ogni giorno arraffavano un avamposto, una base, poi un villaggio e alla fine capoluoghi e intere regioni.

Abbandonato da tutti

“La mia lettura peggiore è al mattino presto quando leggo il numero delle vittime del giorno prima. Perché non sono stime, sono vite tagliate troppo presto, sono opportunità negate, dietro ad ogni numero c’è una persona, una storia, una famiglia”. Parole dell’ormai ex presidente Ashraf Ghani, poco dopo essere stato eletto presidente nel 2014, seduto a quella stessa scrivania dove ieri i talebani si facevano le foto di gruppo mentre veniva ammainata la bandiera afghana.

Sono state giornate difficili le ultime del presidente, sono stati anni difficili per un uomo che pensava che l’Afghanistan, con la persona giusta, avrebbe potuto tirare fuori un tesoro dalle macerie. Invece l’uomo è stato abbandonato da tutti, ha spalancato la porta, che era già aperta, all’entrata dell’incubo peggiore per la maggior parte delle persone che sopravvivono in Afghanistan: i talebani. Ghani, 72 anni, come molti altri leader internazionali si è fidato degli americani, lui stesso ha trascorso buona parte della sua vita negli Stati Uniti dove ha studiato antropologia, restando sempre legato al mondo universitario dove ha insegnato prima di entrare nella Banca Mondiale.

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Un pashtun, come i talebani, l’etnia maggioritaria nel Paese, quella considerata più dura, aggressiva, tradizionalista. Per tutto il tempo dell’invasione russa, della guerra civile, e del regime dei talebani negli anni ’90 è stato fuori dall’Afghanistan e molti anche solo per questo lo consideravano straniero. Non solo, non ci sono molti afghani con una moglie libanese, che parla alle conferenze e partecipa gli eventi. Qualcuno diceva che era il Gandhi – per la somiglianza fisica – che non era riuscito a fare pace con nessuno. Nel 2001, con l’arrivo degli americani, Ghani è tornato con l’ondata di afghani realizzati e benestanti, pieni di buona volontà e che pensavano di ricostruirlo davvero il Paese. Non è andata affatto così. Troppa corruzione. Chiunque ne sarebbe rimasto inghiottito, troppi soldi che riversavano gli americani e finivano nelle mani sbagliate.

Le colpe di Trump

Non è arrivato neanche alla massima poltrona facilmente. Il suo rivale Abdullah Abdullah, dell’etnia tagica ed ex ministro degli Esteri con Karzai, lo ha marcato stretto fin dall’inizio. Quando al terzo tentativo è stato eletto presidente, dopo essere stato ministro dell’Economia con il suo predecessore Karzai – con il quale ha sempre avuto un rapporto molto acceso tanto da preferire dimettersi e fare il rettore dell’Università di Kabul – tutti hanno pensato che fosse troppo intellettuale per potere gestire un Paese come l’Afghanistan spesso più spinto dall’istinto che dalla ragione, più dal potere che dall’utilità. Un Paese corrotto e diviso. Dove chiunque ha qualcosa da pretendere, che siano i Signori della Guerra o attori internazionali, e sono disposti a tutto per ottenerlo.

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Una figura che nel tempo si è sempre più isolata, a causa delle pressioni e degli attacchi dei talebani che sono aumentati negli ultimi anni. Quando il presidente americano Donald Trump ha firmato un accordo con i talebani nel febbraio 2020, ha capito subito che segnava la sua fine. Nessuno lo aveva invitato, le regole del gioco erano state decise senza quella parte degli afghani che gli americani stessi avevano finora sostenuto e foraggiato. Poi il presidente americano lo ha costretto a liberare migliaia di prigionieri, gli stessi che in questi giorni hanno comandato le truppe che hanno conquistato tre quarti dell’Afghanistan. Gli afghani poi si sono seduti davanti ai talebani e per mesi non si sono detti niente.

Intanto i governi stranieri si irritavano per la mancanza di progressi, qualcuno ha cominciato ad invocare un cambiamento di amministrazione, nonostante Ghani avesse nel tempo nominato una generazione di giovani, istruiti, mettendoli in posti chiave, forse troppo perché non avevano esperienza, si percepiva una sorta di scollamento tra quello che avrebbero voluto, e la realtà che li circondava. Voleva combattere la corruzione, voleva trasformare il Paese in uno snodo economico asiatico importante, ma non ci è riuscito. Ma, a fronte dei fallimenti, in Afghanistan negli ultimi anni è fiorita una società civile che lui non ha ostacolato. Appoggiava l’emancipazione delle donne e al contrario di Karzai, che venne aspramente criticato per aver tentato di chiudere i centri antiviolenza perché erano gestiti da stranieri.

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Ora PG si trova in Oman e probabilmente tornerà a casa sua negli Stati Uniti, dove si è già trasferita parte della famiglia che ha lasciato l’Afghanistan negli ultimi giorni. Qui restano i veri vincitori, i talebani, gli iraniani, i pachistani, i russi con l’ambasciata che dice che Ghani è fuggito con quattro macchine piene di soldi. Il fronte americano si è ritirato e il nuovo asse Pakistan, Cina, Russia (le cui ambasciate non son state evacuate) hanno spalancato le porte ai talebani. “Il futuro dell’Afghanistan sarà determinato dal suo popolo”, aveva detto una volta Ghani durante un’intervista e, alla fine, anche qui si era sbagliato.

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