MILANO – “Potessi, non smetterei. Però rispetto una legge che condivido e mi faccio da parte. La testa no, quella continuerà a lavorare: sono stato e continuerò ad essere un medico, interista e di sinistra. La mia gioventù si è rivelata la mia vita anche da anziano, non ne rinnego nemmeno un pezzettino”. Massimo Galli, primario di malattie infettive al Sacco di Milano e docente alla Statale, è stato un punto di riferimento internazionale nella lotta contro l’Aids. Dal gennaio 2020 è il simbolo nazionale della guerra dei medici contro la pandemia da Covid. L’11 luglio ha compiuto 70 anni e da novembre, dopo 43 anni di servizio nello stesso ospedale della città in cui è nato, sarà in pensione. “Giusto lasciare spazio ai giovani – dice – ma ricerca e studio della medicina sono la mia vita e prescindono dai ruoli. Quanto alla professione, posso dire solo di ritirarmi con la coscienza a posto. E oggi trovo curioso tanto interesse verso di me, dopo che per decenni solo i miei pazienti mi riconoscevano”.
Vuole dire che l’emergenza sanitaria, per la prima volta, ha trasformato anche i medici in star?
“Medici e ricercatori, in condizioni normali, conducono vite solitarie. Dopo lo scoppio del Covid, pur accettando solo il 30% degli inviti in tivù e delle interviste, mi sono trovato a parlare pubblicamente dieci volte al giorno. L’ho fatto perché una pandemia impone anche agli scienziati responsabilità diverse. Lo vediamo oggi con vaccini e green pass: bisogno avere l’umiltà di spiegare. Eppure, dai promotori di tesi campate in aria, mi sono sentito chiedere dove trovassi il tempo per curare la gente”.
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Fama e scontri innescanti dal virus c’entrano con il suo ritiro?
“La colpa è solo del tempo che passa. La pandemia però mi ha caricato di una spossatezza spaventosa. In diciannove mesi non ho staccato un giorno. Mi sono chiuso in reparto e in università e lascio sessanta monografie sul Covid. La gente mi ferma per strada e mi ringrazia: è giusto dire però che resiste una minoranza fedele a insulti e minacce”.
Si è fatto un’idea delle ragioni?
“La verità scientifica comporta conseguenze sociali ed economiche vaste. Esistono forze che speculano sugli interessi toccati, coinvolgendo persone disposte a negare ogni evidenza. Non sono il solo a ricevere lettere anonime, insulti sui social e minacce di morte. Qualcuno dovrebbe avere il coraggio di assumersene almeno la responsabilità morale”.
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Il Covid si è rivelato la sfida più impegnativa della sua vita?
“A livello fisico e psichico sì, ma sotto l’aspetto medico e culturale no. Quando ho iniziato la lotta contro l’Aids, nei primi anni Ottanta, ero giovane e non guidavo un reparto. L’Hiv scatenava scandali, a torto era definita la peste di gay e tossicodipendenti. I medici erano isolati e vedevo ragazzi morire dopo anni di dolore e discriminazione. Il Covid, per un medico, è una prova totalmente diversa”.
Perché?
“Da inizio 2020 gli ospedali si sono riempiti di sconosciuti che morivano senza riprendere conoscenza. Si è dovuto salvare e studiare alla cieca, mettendosi a disposizione anche di ricerca farmacologica e governo. L’Aids si è trasformato in un problema morale, il Covid in un’emergenza economica. I medici sono al centro delle tensioni civili scatenati dalle malattie: e io questa volta ci sono finito quasi per caso”.
Come per caso?
“Nel novembre 2019 sono stato a un passo dalla morte per un’embolia polmonare che non ho voluto diagnosticarmi. Sono un vecchio asmatico, mi hanno ricoverato e salvato in extremis nel mio ospedale. Ho ripreso servizio a metà gennaio 2020: quattro giorni prima che la Cina rivelasse al mondo la tragedia-coronavirus. Nulla di eroico, ma da anziano ho affrontato il virus dopo gravi problemi respiratori”.
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E’ per questo che accuse e polemiche l’hanno amareggiata?
“Nessuna amarezza, solo delusione. Ho accettato la notorietà televisiva per fare un servizio di divulgazione scientifica in un’emergenza. Non avevo libri di promuovere e alla vigilia della pensione la mia carriera era conclusa. Ho seguito una sola stella: non mentire. Risultato: l’estrema destra mi accusato di essere un vecchio sessantottino. Tragicomico: si è persa l’occasione di affrontare in modo unitario una crisi nazionale, dividendo anche un virus tra destra e sinistra”.
Ma lei è un sessantottino?
“Accetto di rispondere solo perché ho settant’anni. Nel 1968 ne avevo 17 e la mia gioventù si è consumata in quel contesto. Negli anni 70 frequentavo Medicina e sono stato nel movimento studentesco della Statale a Milano. Sono colpevole di aver vissuto nel mio tempo. Sono stato e sempre sarò di sinistra: la scienza però non è politica”.
Non crede che i partiti siano oggi i protagonisti del contrasto alla pandemia?
“Risolvere i problemi della società è il loro dovere. Trasformare un’emergenza sanitaria in un teatrino quotidiano a fini elettorali, ossia per conquistare il potere, è una scelta che da cittadino non condivido. Speculazioni e resistenze non hanno contenuto il numero delle vittime: chi se ne assume la responsabilità?”.
In questi mesi ha visto una maturazione del Paese?
“Gli italiani hanno risposto bene e sopportano i sacrifici con grande dignità. Per questo fa più male assistere all’alimentazione di false informazioni per ambizioni personali e interessi di partito. Quelli che un anno fa negavano la necessità di lockdown, mascherine e distanziamento sociale, oggi si oppongono a vaccini e green pass. Non mi pare che aiutino la nazione a vivere”.
Lei cosa farà dopo la pensione?
“Resto un medico, mi dedicherò alla ricerca scientifica e storica. Penso ad una fondazione per studiare i virus e le cause di morte a Milano a partire dalla peste del 1452. Conoscere meglio i virus può aiutare la messa a punto dei farmaci. Scrivere la storia clinica dei decessi fornirà dati preziosi ai medici del futuro”.
E nella vita privata?
“Questa è la mia vita privata. Non sarò più primario e non insegnerò più all’università, ma curerò chi me lo chiede. Se avessi dato importanza ai soldi non avrei fatto l’infettivologo. Però ho tanti pazienti che sono diventati amici: fino a quando la testa tiene resterò il loro dottore”.