ROMA – L’ultimo passo indietro di un’inesorabile ritirata l’ha compiuto ieri mattina: “Il Green Pass? Ha senso per chi è a contatto con il pubblico. Se uno è chiuso nel suo ufficio che senso ha?”. Messo all’angolo nel suo partito e isolato dal resto del centrodestra di governo (Forza Italia) che addirittura invoca l’obbligo vaccinale, Matteo Salvini si produce negli ultimi distinguo di una campagna estiva al fianco di no vax e no pass che non pochi, fra i compagni di viaggio, bollano senza mezzi termini come “fallimentare”. Perché oggi, in Consiglio dei ministri, la Lega voterà sì all’ennesimo allargamento dell’obbligo di quel lasciapassare sanitario che il segretario, due mesi fa, definiva “una cagata pazzesca”. La citazione fantozziana non ha portato fortuna al senatore milanese, la cui linea prudente sui provvedimenti anti-Covid è stata gradualmente rintuzzata dal pragmatismo del capodelegazione Giancarlo Giorgetti e dei governatori Zaia, Fedriga, Fontana, insomma di quell'”altra Lega” che non è, come dice Salvini con un altro riferimento naif, “una fantasia da Topolino”, ma semplicemente una rappresentanza di big del partito sensibile alle richieste degli imprenditori del Nord con l’incubo chiusure.
Green Pass, le uscite a effetto e la progressiva ritirata di Salvini
di
Emanuele Lauria e Matteo Pucciarelli
15 Settembre 2021
Il numero uno di via Bellerio, alla fine, prova a consolarsi con qualche dividendo (i tamponi gratuiti invocati anche dai sindacati) ma siamo all’atto finale di una commedia cominciata il 4 luglio, quando Salvini giurava, al termine di un faccia a faccia con Draghi, che l’Italia mai avrebbe imitato il modello della “patente” alla francese: “Il premier non è per gli estremismi”. “Green Pass? Non scherziamo”, diceva poi il 22 luglio, poche ore prima del via al certificato da parte del governo. “Il Green Pass è da cambiare”, tuonava il leader il 26 luglio a provvedimento fatto (e avallato dai suoi ministri). “Un lasciapassare per accedere agli istituti scolastici? Non scherziamo”, il commento rilasciato il 27 luglio. Ma lo scherzo, di nuovo, l’esecutivo gliel’ha fatto il 9 settembre. Non pago, Salvini ha provato a mettere l’ultimo paletto sei giorni fa: “Qualcuno prevedeva l’obbligo del Green Pass anche per i dipendenti pubblici, grazie alla Lega non c’è”. Non c’era, forse, visto che è in arrivo l’estensione del certificato a tutti i lavoratori, atto peraltro annunciato per primo da Giancarlo Giorgetti, ormai punto di riferimento principale di Draghi e persino oggetto di riconoscenza da parte di Enrico Letta: “Sono grato al ministro, il suo è il modo corretto di stare al governo”.
Il segretario del Pd, d’altronde, ha gioco facile nel puntare il dito sulle divisioni del partito che ieri sono riemerse in commissione, alla Camera, e che al Senato solo la fiducia posta dal governo alla conversione del primo Green Pass ha mascherato. Fra i dem c’è chi scommette addirittura su una scissione che lasci come alleata solo la Lega giorgettiana. Ma, almeno al momento, non ci sono i presupposti per una lacerazione di questo tipo. Di certo, però, sono sempre più forti i malumori verso la linea del segretario, si insinuano fra parlamentari ed esponenti di governo che si chiedono a cosa sia servita una fiera opposizione a “vincoli e obblighi”, se poi alla fine il partito li ha approvati tutti. Peraltro pure col gradimento dell’elettorato, stando ai sondaggi.
Non bastano più temi identitari come sicurezza e immigrazione a tenere compatto il partito: gli attacchi alla ministra Luciana Lamorgese che ieri hanno animato l’aula parlamentare continuano a infrangersi sul muro del resto della maggioranza (inclusa Fi) e su Draghi, mentre il tentativo di scambiare gli ostaggi (le dimissioni della titolare del Viminale per quelle già avvenute del sottosegretario leghista Claudio Durigon) rientra fra le mission senza successo dell’estate salviniana.
“Se il motore di tutto è la competizione con Meloni, vediamo quali risultati porterà il 4 ottobre”, sussurra un deputato leghista, convinto – come tanti – che dopo le amministrative servirà un chiarimento. Il fronte di chi chiede congressi locali e maggiore democrazia è guidato da Roberto Marcato, assessore di Luca Zaia, tradizionale rivale interno con cui pure Salvini in questi giorni ha cercato di fare sponda. E ieri, all’improvviso, qualcuno ha rimesso in circolo la notizia, rilanciata dalle agenzie, che la “Lega per Salvini premier” è in ritardo pure sul congresso federale, che si sarebbe dovuto celebrare a un anno dall’approvazione dello Statuto, avvenuta a fine 2018. Una minaccia anonima alla indebolita leadership del Capitano.