Ndrangheta, il boss Antonio Cataldo collabora: “I clan volevano uccidere il figlio di Gratteri”

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Il progetto di uccidere il figlio del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, i rapporti fra i clan di Locri, quella pace che pace non era fra i Cataldo e i Cordì, dopo anni di guerra sanguinosa. Antonio Cataldo, 57ennne elemento di vertice dell’omonimo clan, ha deciso di collaborare con i magistrati.  

In passato ha parlato per difendersi, scritto lettere ai giudici, fatto parziali ammissioni senza mai decidersi a fare l’ultimo passo. Ma adesso, Cataldo – sgarrista forgiato negli anni della faida fra i clan di Locri e fratello di quel Giuseppe ammazzato nel 2005 per aprire ufficialmente le ostilità – sembra convinto. A renderlo noto – scrive oggi Gazzetta del Sud – il pm Giovanni Calamita di Reggio Calabria, nel corso del processo “Riscatto” in corso a Locri.  

Nessun dettaglio è stato dato, almeno in quella sede, sui motivi che avrebbero spinto Cataldo a fare il passo. Secondo quanto filtra da fonti di procura però, da qualche mese avrebbe iniziato a parlare con i magistrati, a sottoporsi senza reticenza agli interrogatori, a confermare ruoli e funzioni di picciotti, luogotenenti e fiancheggiatori e a svelare dettagli fino ad ora inediti. Tuttavia, si spiega, “tutte le sue dichiarazioni vengono vagliate con molta attenzione”.  

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di

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Le prime, evidentemente già riscontrate e “certificate”, sono state depositate agli atti del processo Riscatto, dove Cataldo per la prima volta potrebbe testimoniare da pentito. E dalle pagine, piene di omissis che la procura ha messo a disposizione degli avvocati arriva anche una inquietante conferma: i clan avevano progettato di uccidere uno dei figli del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. “Specifico – dice al pm Calamita – che non volevano spararlo ma che lo avrebbero investito con una macchina” si legge nei verbali del neo-collaboratore. 

A riferirglielo, racconta ai magistrati, un altro esponente dei clan di Locri, Guido Brusaferri che con lui era detenuto. “Eravamo al passeggio, all’aria insieme” dice. I clan – spiega – erano entrati in allarme quando il nome del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, è saltato fuori come papabile ministro della Giustizia. “Loro – dice –  temevano delle… dei processi… e leggi più ferree”.  

In realtà, non si tratta del primo collaboratore che parla di un possibile attentato contro i figli del magistrato. Circa un anno fa Maurizio Maviglia, anche lui pentito, ha rivelato alcuni dettagli sull’intimidazione subita da uno dei ragazzi, Francesco, nel 2016, all’epoca studente universitario a Messina. Due persone incappucciate si erano presentate alla sua porta e avevano suonato al campanello, presentandosi come agenti di polizia. Particolare inquietante: già quattro anni fa Maviglia aveva fatto richiesta di poter parlare con i giudici della Procura di Messina, competenti per la vicenda dell’intimidazione al figlio del di Gratteri, e con i giudici della Procura di Salerno, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. 

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