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Per dieci anni, Tessa Ganserer si è svegliata con una pietra sul cuore. Tutti i giorni si è fatta la barba, ha inforcato i suoi occhiali da secchiona ed è uscita di casa in giacca e cravatta, sapendo di indossare un corpo sbagliato. Dieci anni prima si era messa per scherzo i vestiti di sua moglie e qualcosa le era scoppiato dentro. Ma per dieci lunghi anni era rimasta una “zimmertranse”, una “trans da camera”, aveva nascosto la sua natura vera entro i muri di casa, si era travestita da donna soltanto al riparo da sguardi esterni. Dopo un percorso personale dolorosissimo, nel 2018 Tessa ha fatto coming out. Quando la intervistammo, era appena successo. E Tessa era frastornata dalle lettere entusiaste che le arrivavano da tutta la Germania, alcune scritte a mano: “incredibili”, ci disse. Lettere che la ringraziavano per essersi messa un giorno una parrucca bionda e un tailleur ed essersi seduta al suo posto, nel parlamento della Baviera, come se niente fosse. Dopo che l’avevamo intervistata ci mandò anche una sua foto della vita precedente, in cui era Markus. Un uomo dai capelli radi e gli occhiali, il sorriso timido.

Il 26 settembre Tessa Ganserer è stata eletta al Bundestag con i Verdi, è la prima donna transgender ad aver conquistato un seggio nel Parlamento federale. L’ex deputata regionale si è candidata a Norimberga ed è stata catapultata a Berlino. “Voglio ringraziare i miei elettori per la fiducia. Sono stravolta e felicissima nel mio nuovo incarico a Berlino”, ha twittato a caldo. Con lei siederà nei banchi dei Verdi un’altra candidata transgender, Nyke Slawik, che arriva dal Nordreno-Westfalia. Un primato importante, per il Parlamento della Germania. “Le elezioni 2021 sono un momento storico, da questo punto di vista”, ha commentato Gabriel Nox Koenig, presidente dell’Associazione federale Trans. In tutto, le candidate transgender erano quattro; due ce l’hanno fatta ad essere elette nel nuovo Bundestag. Storico è anche il voto che per la prima volta non vede protagonista la donna che ha dominato la politica tedesca ed europea degli ultimi sedici anni, Angela Merkel. Ma durante i suoi quattro governi, sulle questioni lgbt+, la prima cancelliera donna della storia non è stata esattamente un faro. Su questi temi il Paese si è evoluto sulla scia di una liberazione e un progresso che sono avvenuti un po’ ovunque, in Occidente. E un simbolo di questa nuova Germania è stato l’ex sindaco della Berlino “povera ma sexy”, Klaus Wowereit. Un giorno esclamò “sono gay ed è un bene!”.

 

Il nuovo Bundestag

Dalla politica non sono arrivati molti impulsi, invece. E ci sono voluti anni di intense discussioni perché la Germania approvasse i “matrimoni per tutti”, nel 2017. Quando la legge approdò al Bundestag, la cancelliera concesse al suo partito, la Cdu, libertà di scelta ma votò contro. “Per me il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna”, spiegò. Ma la leader cristianodemocratica ammise di essersi convinta che anche alle coppie lesbiche e omosessuali andasse concesso il diritto di adottare figli. E aggiunse che il dibattito era stato “lungo, intenso, per molti commovente – e ciò vale anche per me personalmente”. Come spesso accade nel suo caso, è complicato capire fino in fondo cosa Merkel pensi persino su una questione così importante. Nel suo secondo governo, tra il 2009 e il 2013, Guido Westerwelle era stato il primo vicecancelliere e ministro degli Esteri apertamente omosessuale, ad esempio. Tuttavia, ancora oggi gli omosessuali e le persone transessuali non possono donare il sangue, in Germania. Un retaggio orribile degli anni dell’epidemia dell’Aids, quando gli omosessuali furono bollati come “categoria a rischio”.

La composizione del nuovo Bundestag è storica anche per altri motivi. È diventato più grande, più giovane, più “plurale”. In Germania, la Camera Bassa non ha un numero fisso di parlamentari: dipendono dai cosiddetti “Ueberhangsmandate”, i seggi in eccesso. Siccome i tedeschi mettono due crocette per il rinnovo del Parlamento, una per il candidato del seggio, l’altra per le forze politiche, può succedere che ci sia un’incongruenza tra il numero degli eletti col mandato diretto e i voti andati al partito. La legge elettorale prevede che i seggi vengano compensati in base alla percentuale conquistata complessivamente dalla forza politica, per cui il Parlamento lievita ormai da anni. Stavolta ha raggiunto quota 735, ben 26 in più rispetto a quattro anni fa. Chi temeva un parlamento-monstre da oltre 800 eletti è stato smentito, ma da anni si parla di una riforma elettorale che non riesce mai a passare.

Annalena Baerbock

Per un momento ci ha creduto, Annalena Baerbock, alla possibilità di diventare cancelliera, seconda donna dopo Angela Merkel e primo capo del governo Verde. Poi lo slancio si è indebolito, e la giovane candidata sembra aver tirato un sospiro di sollievo. La co-presidente dei Grünen, che dal 2018 spartisce la leadership del partito con il filosofo Robert Habeck, ha appena 40 anni, per lei non mancheranno altre occasioni. E in più, con il partito ambientalista diventato indispensabile in ogni coalizione, ci sarà l’opportunità finora mancata di fare esperienza al governo, forse persino in quella poltrona dell’Auswärtiges Amt che fu di Joschka Fischer, ministro degli Esteri dal 1998 al 2005.

La Baerbock non poteva certo presentarsi all’insegna della continuità, nonostante le similitudini fra lei e la Merkel siano evidenti agli osservatori. Le due donne si apprezzano a vicenda, e la cancelliera non fa mistero di ammirare la preparazione della giovane Verde, soprattutto sui temi ambientali e dell’energia, radicata sugli studi ad Amburgo e alla London School of Economics. E l’esponente dei Grünen si cura di mostrare il massimo rispetto, tanto che ha persino chiesto scusa dopo una frase infelice in cui aveva collegato i tremori della cancelliera ai cambiamenti climatici.

Sono però le differenze ad aver rallentato, almeno per il momento, la corsa della Baerbock: gli errori che ne hanno compromesso la campagna elettorale – l’abbellimento del curriculum, la goffaggine degli introiti dichiarati in ritardo al Bundestag, la gaffe di aver firmato un libro con interi passaggi copiati da autori non citati – dimostrano che il proclamato pragmatismo – nel partito la Baerbock fa riferimento alla corrente dei Realos, i “realisti”, in contrapposizione ai Fundis, i radicali – funziona solo se affiancato al massimo controllo. E apparentemente c’è una forte differenza anche nella squadra, che per la Merkel è sempre stata ai massimi livelli, mentre lo staff della Baerbock riflette un’anima ancora movimentista.

Cresciuta in una fattoria nelle campagne di Hannover, campionessa di trampolino elastico, in questi mesi la candidata dei Verdi non si è nascosta: io sono il cambiamento, ribadisce, gli altri sono lo status quo. E questo è coraggio, se per gli elettori tedeschi ogni evoluzione deve essere graduale e gli scossoni bruschi sono sgraditi.

Quasi un terzo del nuovo Bundestag ha meno di 40 anni – nel 2017 era appena il 15%, soprattutto grazie al rafforzamento della Spd, dei Verdi e dei liberali della Fdp. I più giovani si chiamano Emilia Fester e Niklas Wagener, sono stati eletti con i Verdi e hanno 23 anni. Peraltro, gli ambientalisti sono in generale il partito più giovane: oltre il 40% dei neoeletti ha meno di 40 anni. E il più attento alle donne e alle persone lgbtq+: le due parlamentari transgender sono elette nelle fila degli ambientalisti, e la quota più alta di donne la vanta il partito di Annalena Baerbock e Robert Habeck. In generale, le donne sono il 34% dei neoletti del Bundestag: non rappresentano ancora la Germania, dove le donne sono poco più della maggioranza del Paese, ma nel 2017 ne erano entrate ancora meno: il 31%.

Fine del Paese del cancelliere?

A parte un grande genio come Otto von Bismarck, i cancellieri tedeschi più importanti sono entrati nella storia con un appellativo. Konrad Adenauer è stato il cancelliere della “Westbindung”, del ritorno della Germania nell’alveo delll’Occidente democratico, Willy Brandt l’artefice della “Ostpolitik”, Helmut Kohl quello della “Riunificazione”. Per Angela Merkel il discorso è più complesso. La cancelliera che ha traghettato la Germania e l’Europa attraverso la crisi dell’euro, l’emergenza profughi e la pandemia “non ha lasciato un grande progetto, un’impronta forte” ci spiega Andreas Roedder, storico della Johannes Gutenberg-Universitaet di Magonza e tra i maggiori esperti del conservatorismo tedesco. E se il Recovery Fund e i bond comuni sono considerati in molti Paesi come l’Italia la sua vera legacy, il suo piano più visionario e generoso, “non bisogna dimenticarsi che per molti tedeschi e nordeuropei quel progetto altro non è che l’inizio della temutissima ‘Unione dei debiti’. Avrebbero qualche dubbio a definirlo un grande progetto visionario, una legacy positiva della cancelliera”. Questione di punti di vista, insomma. “Forse – conclude Roedder – Merkel rimarrà nella storia proprio come ‘cancelliera delle crisi’, la Krisenkanzlerin”. 

Christian Lindner

Più che ago della bilancia, Christian Lindner sembra un giocatore che ha scommesso bene, e ora è pronto a incassare. Il presidente del partito liberale ha impostato l’intera campagna elettorale sul progetto di rendere indispensabili i suoi voti nella composizione della maggioranza. A 42 anni, finalmente può riscuotere i dividendi di un’avanzata che risale al ritorno in Parlamento della Fdp, sotto la sua guida, dopo i quattro anni in cui era stata esclusa per non aver superato la soglia di sbarramento nel 2013.

In campagna elettorale aveva proclamato che sarebbe stato più volentieri in una coalizione con Verdi e Cdu/Csu invece che con la Spd. Ma a pensarci oggi, sembra un messaggio rivolto più agli elettori di centro che ai possibili partner di maggioranza. E quegli elettori gradiscono molto la sua immagine di tecnocrate, un falco sui conti pubblici tanto che il Financial Times lo ha descritto come un “mini Schaeuble” che sorveglierà ogni distrazione sul rigore del Patto di Stabilità già messo in discussione per l’emergenza coronavirus. Proprio per questo pretende per sé la poltrona di ministro delle Finanze.

Non sempre le sue scommesse vanno bene: nel 2017 si tirò indietro dalle trattative per alzare il prezzo della partecipazione a un governo con i colori della bandiera giamaicana, sostenendo che era “meglio non govenare, che governare male”. Alla fine la Cdu/Csu, allora con la Merkel, decise per la Grosse Koalition. Descritto dagli analisti come uno stakanovista della politica, sempre concentrato e a suo agio davanti alle telecamere, ai più critici appare più come Yuppie, appassionato di auto d’epoca.

Nato a Wuppertal nel 1979, Lindner è entrato a sedici anni nella Fdp, ai tempi partito di Hans-Friedrich Genscher, per scalare rapidamente dal parlamento regionale fino al vertice. E nel frattempo, si occupava di consulenze in tema di energia elettrica, tanto che gli oppositori gli hanno cucito addosso la caricatura di venditore di Thermomix (una macchina multiuso per la cucina). Di fatto un’azienda di servizi Internet da lui fondata nel 2000, è fallita poco dopo la sua uscita. Sposato con una giornalista, separato e ora fidanzato con una reporter di Rtl, ha comunque qualche difficoltà per il suo atteggiamento “machista” con le donne, a giudicare dall’etichetta che gli ha riservato il periodico Emma, di “Sessista dell’anno per il 2019” per alcune battute sgradite sulle colleghe di partito.

La Germania si prepara intanto al dopo-Merkel con un governo molto diverso dai precedenti. E forse non finisce solo l’era della cancelliera, ma sette decenni di storia repubblicana. Quasi sicuramente il prossimo sarà un esecutivo sostenuto da tre partiti e non da due. Non un inedito. La novità però è che non c’è una grande Volkspartei a reggere l’impianto, un grande partito di massa cui gli altri fanno da stampella o da junior partner, com’è sempre accaduto. Stavolta nessuno dei candidati alla cancelleria, né Olaf Scholz (Spd), né Armin Laschet (Cdu) e neanche Annalena Baerbock (Verdi) ha convinto del tutto gli elettori: nessuno dei loro partiti si è avvicinato al 30%. Di conseguenza il prossimo cancelliere dovrà scendere sempre a patti con altri due partiti e la Germania potrebbe diventare non più il Paese dominato da un cancelliere, ma da una coalizione.

Il nuovo scenario, secondo Roedder “non significa affatto che la Germania diventerà meno stabile, ma certamente sarà meno dinamica”. Vale la pena ricordare che la Costituzione tedesca prescrive che un partito possa aprire una crisi di governo soltanto se ha pronta una maggioranza alternativa per un nuovo esecutivo. Successe ad esempio al cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt, che fu abbandonato dai Liberali all’inizio degli anni Ottanta a favore di un governo con i conservatori di Helmut Kohl. E’ il principio della sfiducia costruttiva, ed è servito a salvaguardare sempre la stabilità degli esecutivi della Bundesrepublik. Ma la dinamica del Paese dominante in Europa sarà sicuramente rallentata dalla necessità del prossimo cancelliere di consultarsi con una maggioranza più variopinta. Peraltro, i flussi elettorali dimostrano che c’è stata una grande emorragia degli “orfani” di Merkel dal suo partito, la Cdu. Due milioni di elettori sono migrati nella Spd (il 13%), un milione e trecentomila hanno optato per la Fdp (l’8,6%), un milione ha scelto i Verdi (il 6,8%) e altro un milione si è astenuto. Se si sommano i socialdemocratici e gli ambientalisti, un elettore su cinque che aveva votato l’ultima volta per la cancelliera ha scelto un partito di centrosinistra. Una nemesi. Con la fine di un lungo cancellierato accusato spesso di aver cannibalizzato la sinistra, di aver inglobato o rubato temi agli ambientalisti o ai socialdemocratici, quegli elettori hanno voltato le spalle alla Cdu e sono tornati a casa.

Olaf Scholz
Più ancora che lo slogan “Competenza per la Germania”, è stata la posa della fotografia che campeggiava sui cartelloni della campagna elettorale. Con un mezzo sorriso, l’abito e la cravatta più prevedibili possibile, Olaf Scholz appariva per quello che è: un tecnico della politica. Noioso, inevitabilmente, ma poco male, basta che in cambio sia rassicurante. Il senso della comunicazione era lo stesso dello slogan che ha lanciato Angela Merkel, “Mi conoscete”. Niente sorprese, insomma, nessun cambiamento che porti scosse, ma piccoli passi che garantiscano un cambiamento graduale. La vecchia ricetta sembra aver funzionato bene.Scholz non è un politico dall’eloquio pirotecnico, anzi. È così legnoso nell’espressione delle sue idee che la stampa tedesca lo ha soprannominato “Scholz-O-Mat”. Ma la sua esperienza reale gli ha permesso di profilarsi come garanzia in un ambito che per gli elettori tedeschi è fondamentale: la stabilità economica. A 63 anni può ben rappresentare la Germania che invecchia, senza preoccuparsi di recitare la parte del rivoluzionario. Le idee più radicali della gioventù, come il superamento dell’economia capitalista e la necessità del disarmo globale, si sono diluite nel tempo, o sono del tutto sparite così come i capelli, che Scholz portava lunghi ai tempi della militanza nella federazione giovanile della Spd di Amburgo.Il percorso di Olaf Scholz è sempre una sintesi fra moderazione economica e preoccupazioni sociali. Lo ha dimostrato come sindaco di Amburgo: meno debiti, più strutture pubbliche, e stop all’aumento selvaggio degli affitti. Tutto sempre con una linea pragmatica che la Frankfurter Allgemeine ha definito “favorevole agli affari, ma con forti elementi sociali”. È vero, i tempi sono cambiati rispetto a quando sosteneva le riforme del mercato del lavoro volute da Gerhard Schroeder. Ora bisogna affrontare sfide come i cambiamenti climatici o la pandemia, e allo stesso tempo non si può spaventare gli ambienti dell’economia. Ma un sostenitore accanito del pareggio di bilancio come il leader socialdemocratico non sarà mai un pericolo per i risparmi, nemmeno se predica un adeguamento del salario minimo. In più c’è lo spirito di sopravvivenza, che i critici chiamano “effetto teflon”, quasi che i problemi e persino gli scandali – come il caso Wirecard – gli scivolino addosso. È lo stesso che lo ha trattenuto nella Spd dopo che il partito gli aveva preferito Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans alla guida. Se diventa cancelliere, sarà una qualità preziosa.

 

Da cannibalizzato a cannibale

Olaf Scholz, il candidato socialdemocratico, ha scommesso esplicitamente sulla sua capacità di trasformare la Spd da cannibalizzato a cannibale: ha riempito la Germania di cartelloni ironici in cui si leggeva “sa fare la cancelliera” e si è fatto ritrarre sul magazine della progressista Sueddeutsche Zeitung mentre faceva la famosa “Raute”, le mani a rombo della cancelliera. Il momento più surreale della campagna elettorale è stato quando Merkel, trascinata nell’agone dal suo erede Armin Laschet, sfiancato da sondaggi devastanti, ha detto un po’ controvoglia “non è vero che Scholz mi assomiglia”.

“L’addio di Angela Merkel – ragiona lo storico Roedder – dimostra che il metodo Merkel, per la Cdu, non funziona più. Il metodo Merkel consisteva nello spostare la CDU a sinistra tagliando fuori la SPD e i Verdi. In questo modo, tuttavia, ha perso più elettori a destra nel corso degli anni di quanti non ne abbia guadagnato a sinistra. Il problema è che i voti persi a destra sono stati neutralizzati dal fatto che non si sono più riflessi in voti concreti. E ora gli elettori che Merkel aveva conquistato non hanno più votato per Laschet. Però è vero che la Cdu/Csu ha sbagliato campagna elettorale. All’inizio, Laschet aveva parlato giustamente del bisogno di avviare un ‘decennio della modernizzazione’, poi ha rinunciato a portare avanti questo messaggio, che invece era cruciale. Perché la Germania ha un bisogno drammatico di modernizzarsi, di investire, di affrontare la grande sfida energetica, di garantirsi la competitività anche in futuro”.

Armin Laschet

Sarebbe impietoso dare un giudizio su Armin Laschet dopo il disastro elettorale della Cdu. Il volto teso e il sorriso forzato del candidato cristiano-democratico sconfitto rischiano di ispirare valutazioni severe, con la tentazione di tornare alla feroce storica battuta su Richard Nixon: Comprereste un’auto usata da quest’uomo? Se la fiducia è fatta di impressioni a pelle, Laschet non è stato in grado di conquistarsela. Persino i suoi concittadini renani lo hanno criticato pesantemente, dopo che si era fatto riprendere mentre rideva durante un discorso luttuoso del presidente Frank-Walter Steinmeier nelle zone colpite dall’alluvione. E da allora l’attenzione si è concentrata sulle sue gaffe: dalla mancia non data in un caffè, alla intervista goffa intervista con i bambini, alla scheda elettorale piegata in modo sbagliato. Un accanimento inatteso, tanto più che veniva spesso dalla Bild Zeitung, giornale conservatore per definizione.In realtà all’inizio della campagna elettorale Laschet sembrava avere le carte in regola per permettere al partito conservatore se non la fiducia accordata alla Merkel almeno un generico galleggiamento. Ma così non è stato. Un racconto corretto impone di sottolineare che il ministro-presidente del NordReno Westfalia è arrivato alla candidatura in forte ritardo, dopo una lotta fratricida con gli altri due aspiranti alla candidatura, Friedrich Merz e Norbert Röttgen, che senza dubbio ha lasciato il segno. E il leader dell’Unione cristiano-sociale bavarese, Markus Söder, non ha mai fatto mistero di sentirsi l’uomo più adatto per la poltrona della Cancelleria, tanto che nei sondaggi viene indicato come uno dei maggiori responsabili del crollo Cdu. Figlio di un minatore poi diventato insegnante, Laschet, 60 anni, è un sostenitore della riconversione energetica. “Uomo del dialogo”, è stato fra i pochi che sin dal primo momento hanno sostenuto la visione di Angela Merkel in tema di immigrazione e asilo. Già come ministro all’Integrazione in NordReno-Westfalia, dal 2005 al 2010, aveva sfidato la destra Cdu sostenendo che “la molteplicità culturale, etnica e religiosa non è una minaccia, ma un’opportunità”. Cattolico praticante, nelle interviste racconta di essere stato impressionato dall’immagine di papa Francesco solo in piazza San Pietro durante la pandemia. Ha fama di essere sempre capace di rialzarsi dopo le cadute: ora ha una nuova occasione per dimostrarlo.

 

Da Schaeuble a Schaeuble

A proposito della “nuova Germania”, una certezza resta: la presenza in politica di una delle personalità che hanno maggiormente caratterizzato l’era Merkel: Wolfgang Schaeuble. Il presidente uscente del Bundestag è l’uomo dei record. È stato rieletto anche stavolta e siede nel Parlamento tedesco per i cristianodemocratici ormai da 48 anni. Schaeuble è stato uno dei politici più importanti degli ultimi trent’anni, ma in particolare il suo periodo da ministro delle Finanze ha lasciato un segno forte, anche in Europa. Simbolo del rigore tedesco, ha condotto le trattative a Bruxelles negli anni bui della crisi dei debiti e non ha lasciato un buon ricordo nei Paesi del Sud Europa. Lui continua a professarsi, anche nelle interviste che ha fatto in questi anni con noi, un europeista di ferro. Nell’ultimo colloquio con Repubblica ha addirittura confessato di essere sempre stato a favore degli eurobond, ma che era necessario aspettare il momento giusto – e la pandemia lo è stata – per sdoganarli anche in Germania. Ma è indubbio che il suo successore al ministero delle Finanze e ora probabile prossimo cancelliere della Germania, Olaf Scholz, abbia rivoluzionato il modo di porsi della Germania in Europa. Berlino ha smesso di apostrofare il resto del continente col ditino alzato.

Lo Scholz-O-Mat

Olaf Scholz è uscito vincitore dalle elezioni più incredibili della storia recente. Ed è possibile che sarà lui il prossimo cancelliere tedesco. Ma già in questi ultimi quattro anni come vicecancelliere e ministro delle Finanze, l’ex sindaco di Amburgo ha cambiato molto l’immagine della Germania nei consessi europei. Appena arrivato nel monumentale edifico della Wilhelmstrasse, che ai tempi del nazismo era stato il ministero dell’Aviazione di Hermann Goering, il socialdemocratico ha sostituito alcune figure chiave. Ha mandato via Ludger Schuknecht e Thomas Steffen, i dioscuri del rigore schaeubleiano, e li ha rimpiazzati con studiosi keynesiani come il capoeconomista Jakob von Weiszaecker, favorevole agli eurobond, e il sottosegretario Joerg Kukies, ex top manager di Goldman Sachs cresciuto alla scuola anglosassone della finanza.

Pur mantenendo in Germania – fino alla pandemia – rigorosamente l’eredità schaeubleiana dello “zero nero”, del pareggio di bilancio, Scholz si è posto in ascolto, nei primi tre anni da ministro delle Finanze, e ha voluto far dimenticare, come racconta chi lo conosce bene, l’immagine da “maestrina” che la Germania aveva coltivato negli anni del binomio Merkel-Schaeuble e della lunga e dolorosa crisi dell’euro. Scholz si è ritagliato un ruolo più dialogante e più diplomatico, e alla prima prova del nove, quando si è trattato di nominare un esponente tedesco nel board della Banca centrale europea, ha dato prova della sua volontà di marcare la differenza. Invece dei soliti economisti ordoliberali che hanno spesso contrastato le mosse straordinarie della Bce nel nome di un’ortodossia monetaria fuori tempo, Scholz ha voluto mandare a Francoforte una professoressa brillante di Bonn, Isabel Schnabel, che da “saggia” dell’autorevole Consiglio degli economisti che guida le scelte dei governi, aveva spesso difeso le scelte di Mario Draghi, osteggiate invece dalla Bundesbank e da una fetta consistente di tedeschi. Scholz ha capito che per la Germania ritrovarsi sempre in minoranza nella Banca centrale europea non è un segno di forza ma di debolezza. E ha agito di conseguenza.

Quando la pandemia ha travolto l’Europa, Scholz è stato fondamentale nella nascita del Recovery Fund proposto ufficialmente a maggio da Angela Merkel ed Emmanuel Macron, ma che il ministro tedesco ha sostenuto con forza insieme al suo omologo francese Bruno Le Maire. E fonti raccontano di uno scontro al calor bianco con l’omologo olandese Wopke Hoekstra all’eurogruppo di marzo, quando si trattò di riformare il fondo salva-Stati Esm e il tedesco voleva togliere ogni condizionalità in modo da renderlo più appetibile per Paesi come l’Italia dove i Cinquestelle al governo lo osteggiavano con punte di isteria. Il duello tra la Germania e i Paesi cosiddetti “Frugali” (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finalndia) si è poi riprodotto al Consiglio europeo di luglio che ha varato l’evoluzione del Recovery Fund, il Next Generation Eu. E, soprattutto, i bond comuni europei, fino ad allora un assoluto tabù, per la Germania. In tutta la prima fase della pandemia, Olaf Scholz ha beneficiato anche all’interno del suo ruolo di ministro delle Finanze e, dunque, di ‘benefattore’. Proprio in virtù del fatto che la Germania ha sempre mantenuto i conti in ordine – grazie al rigore applicato dal 2014 anzitutto a se stessa attraverso la regola ferrea del pareggio di bilancio che ha consentito di ridurre anche il debito al 60% del Pil nel 2019 – Scholz ha avuto i margini per salvare migliaia di aziende e milioni di famiglie precipitate nel grande letargo da coronavirus. Fino alla fine del 2020 la Germania ha messo sul piatto 1.300 miliardi di euro, tra 826,5 miliardi di garanzie e quasi 400 miliardi di spese dirette. Ma sui 400 miliardi di euro di indebitamento, Scholz ha sempre sottolineato che “li abbatteremo con la crescita”, e non con il taglio delle spese o con misure di austerità.

“Scholz è il maggiore beneficiario della crisi da coronavirus”, sostiene il politologo dell’Università di Kassel Wolfgang Schroeder, che considera la sua funzione di ministro delle Finanze cruciale anche per la successiva campagna elettorale della Spd nella corsa al dopo-Merkel. A Repubblica spiega che “durante la pandemia la spesa in deficit, gli aiuti statali alle aziende e un massiccio investimento nello stato sociale – impensabili, sino ad allora – sono diventati ragion di Stato”. Pur essendo Scholz un politico ‘riformista’ della nidiata dell’ex cancelliere Gerhard Schroeder e perfettamente integrato in un partito che negli anni Novanta aveva sposato il neoliberismo e negli anni Duemila varato il più ambizioso programma di riforma e di tagli del welfare dell’ultimo secolo, l’Agenda 2010, Scholz ha potuto imprimere dunque una decisa virata a sinistra al partito. “Da centrista navigato, Scholz ha potuto integrare benissimo posizioni di sinistra nel suo programma di governo”, argomenta il politologo.

In cima alle priorità Scholz ha citato in ogni comizio elettorale il salario minimo a 12 euro (attualmente è poco sopra i 10), la lotta alla povertà infantile, misure per “una pensione più ricca e solida”, una riforma del discusso sussidio per disoccupati e indigenti “Hartz IV” per renderlo meno vincolato e ha promesso di contrastare il drammatico problema del caro-affitti con “400mila nuovi appartamenti all’anno di cui 100mila case popolari”. Ma l’ex sindaco di Amburgo ha anche chiarito che per finanziare un riequilibrio del peso fiscale e sgravare “redditi piccoli e medi” bisognerà introdurre una patrimoniale per i ricchi, una tassa di successione e aumentare le imposte sui redditi superiori a 250mila euro. Il socialdemocratico, contrariamente ai Verdi, non ha alcuna intenzione però di toccare la “Schuldenbremse”, il “freno al debito” scolpito nella Costituzione tedesca: “sfrutteremo i margini che ci offre il Grundgesetz per indebitarci”, ha chiarito. Ma la grande questione è come la Germania potrà riassorbire i 400 miliardi di indebitamento e come potrà finanziare gli almeno 50 miliardi annui che Scholz ha promesso di investire per la lotta ai cambiamenti climatici, la mobilità, la digitalizzazione e la salute. Gli obiettivi della Spd saranno ovviamente diluiti, se Scholz diventerà cancelliere e se riuscirà a formare una coalizione con i Verdi e i Liberali. Ma la fame di investimenti che attanaglia il Paese è ormai difficile da ignorare, per chi governerà la Germania in futuro. Ed è indubbiamente un’eredità negativa di sedici anni di governi Merkel.

 

La voragine degli investimenti

Quando Marcel Fratzscher divenne nel 2013 direttore dell’autorevole istituto economico DIW (Deutsche Institut fuer Wirtschaftsforschung) lo andammo a intervistare e ci raccontò ridendo che negli anni alla Banca mondiale e in Asia e a Washington come consulente economico di prestigiose organizzazioni internazionali si ritrovava spesso a dover spiegare ai suoi interlocutori le ragioni della “bolla” tedesca. I motivi per cui gli economisti del suo Paese d’origine avessero sempre un modo di pensare così diverso rispetto ai loro colleghi stranieri e perché nell’accademia fosse ancora così imperante l’influsso dell’ordoliberalismo e l’ossessione per il rigore di bilancio. Gli anni a venire non sono stati semplici per l’economista keynesiano: i suoi forsennati appelli ad aumentare gli investimenti sono rimasti a lungo inascoltati. E la sua voce nel deserto ha ispirato persino un titolo della conservatrice Frankfurter Allgemeine Zeitung, che lo ha definito una “claque” della Spd. Per fortuna in questi ultimi tempi la cronica “Investitionsluecke” tedesca, il “buco negli investimenti”, è diventato invece un tema di dibattito serio. E non solo per i ponti, le scuole e le infrastrutture che cadono a pezzi. Ma anche per le sfide del futuro come la digitalizzazione e la riconversione ambiziosa verso l’energia pulita, su cui la Germania ha accumulato mostruosi ritardi.

Chiunque si sia avventurato nelle campagne sa che si rischia di girare per ore senza una tacca per il cellulare e chiunque abbia a che fare con l’amministrazione pubblica ha subito prima o poi lo shock di un paese in imbarazzante ritardo sulla digitalizzazione. La pandemia ha inoltre aggiunto un trauma: quello dei disastri nell’insegnamento a distanza. Secondo Guido Zimmermann, analista di LBBW Research “la crisi da coronavirus ha svelato senza pietà i ritardi nella digitalizzazione della Germania – soprattutto nell’amministrazione pubblica e nell’istruzione”. La digitalizzazione investe ovviamente molti più ambiti, dall’Intelligenza artificiale ai Big data, dalla banda larga all’utilizzo dei cloud, dalle fintech finanziarie alle città “smart”, dall’e-commerce allo smart working, ma nonostante la Germania vanti un importante hub europeo delle start up come Berlino, è risultata penultima tra i Paesi del G7 secondo il Digital Riser Report 2021.

Uno dei motivi di questa mancata modernizzazione è che negli ultimi vent’anni, nonostante i generosi surplus di bilancio incassati dallo Stato, gli investimenti pubblici in Germania sono rimasti al palo. Persino l’Italia, gravata da un debito più che doppio, se paragonato con Pil, spende di più. L’Institut fuer deutsche Wirtschaft (IWD) ha calcolato che tra il 2000 e il 2017 la Germania ha speso in media 845 dollari per ogni cittadino contro i 1.212 dell’Italia, i 1.628 della Francia, i 1.057 della Spagna e i 5.147 dollari del Lussemburgo. “I soldi ci sarebbero – commenta l’IWD – ed è sufficiente uno sguardo ai conti pubblici tedeschi per vedere gli spazi fiscali inutilizzati. E in un periodo in cui la quota della forza lavoro tra i 20-64enni è aumentata dal 75 a oltre l’80%, gli introiti fiscali del 2019 erano più alti di oltre la metà rispetto al 2011. Allo stesso tempo lo Stato ha risparmiato circa 204 miliardi di euro di interessi sul debito”. Lo spazio fiscale conquistato dalla Germania in questo periodo ammonta a 1.300 miliardi di euro. “Eppure il buco negli investimenti non è stato riempito”, ricorda l’istituto economico. Tra il 2012 e il 2019 lo Stato e le amministrazioni locali hanno speso appena 60 miliardi per investimenti aggiuntivi – appena il 4,5% delle risorse in più disponibili”. E per cosa sono stati spesi gli altri soldi? Il 60% è servito a evitare disavanzi e tagliare il debito e rispettare il feticcio del pareggio di bilancio e raggiungere l’obiettivo del debito pubblico al 60% del Pil. E, al livello locale, per aumentare contributi sociali e servizi.

Soltanto nel 2020, con l’arrivo della pandemia, quando il governo ha tirato fuori il suo “bazooka” come lo ha definito il ministro delle Finanze Scholz, la spesa per investimenti è aumentata a 50,3 miliardi di euro, un terzo in più rispetto all’anno precedente. Anche quest’anno è previsto un esborso di 62 miliardi di euro. Ma sono spese legate all’emergenza coronavirus e ai massicci piani di aiuti stanziati nella primavera della prima ondata da coronavirus.

La svolta energetica

Non è chiaro se il nuovo governo manterrà l’anno prossimo, quando auspicabilmente la crisi da coronavirus sarà passata, l’ambizione di mantenere così alta la quota di investimenti. E non è un dettaglio. Il governo Merkel ha deciso nella più recente “Legge a protezione del clima” di giugno del 2021 che entro il 2030 i gas serra dovranno essere tagliati del 65% rispetto al 1990 (fino ad allora era il 55%). Al 2040 la quota dovrà scendere ulteriormente dell’88% per arrivare alla “neutralità climatica”, insomma a un Paese a emissioni zero entro il 2045. Il punto è che la cancelliera più longeva la Germania ha deciso già dieci anni fa di uscire dal nucleare. Quando era una giovane studentessa di fisica, Merkel viaggiava regolarmente da Berlino e Lipsia. E davanti agli occhi le scorrevano gli infernali paesaggi dei crateri di lignite intorno a Bitterfeld, la cittadina che la scrittrice Monika Maron definì “il posto più sporco d’Europa”. L’ambientalismo fu un capitolo importante dell’opposizione al regime nella vecchia e inquinatissima Ddr. E nella sua carriera politica, che cominciò nei mesi a cavallo della caduta del Muro di Berlino, la futura la cancelliera ha sempre messo in evidenza la sua sensibilità per la lotta ai cambiamenti climatici.

Negli anni Novanta, da ministra dell’Ambiente, fu anche una straordinaria negoziatrice degli accordi internazionali sul clima che portarono a Kyoto. E quando vinse le elezioni federali, nel 2005, segnalò subito l’ambizione di essere ricordata come “Klimakanzlerin”, come “cancelliera del clima”. Al G8 di Heiligendamm fu lei a convincere gli Stati Uniti di George W. Bush a rientrare nel negoziato post-Kyoto. Si parla spesso della “cannibalizzazione” della Spd da parte di Angela Merkel, e spesso si tende a dimenticare quanto abbia assorbito in tutti questi anni anche le istanze dei Verdi. Ma, da fisica di formazione, Merkel ha sempre continuato fermamente a credere nell’energia nucleare. Finché, a marzo del 2011, la catastrofe della centrale nucleare di Fukushima non l’ha traumatizzata. Gli eventi occorsi in Giappone, spiegò a caldo, “sono stati una svolta anche per me personalmente: abbiamo dovuto imparare che persino in un Paese ad alta tecnologia come i Giappone i rischi dell’energia nucleare non possono essere controllati con assoluta certezza”. È allora che la Germania ha deciso di uscire dal nucleare.

Attivisti per il clima protestano contro la demolizione di due villaggi per fare strada all’espansione della miniera di carbone a cielo aperto di Garzweiler. 7 agosto 2021
 
Insieme alla rinuncia all’atomo, durante l’era Merkel la Germania ha anche chiuso le leggendarie miniere di carbone che da centocinquant’anni sono state un pilastro del cosiddetto capitalismo renano e il motore della sua industria e delle sue acciaierie. Ed entro il 2038 chiuderà anche l’ultima cave di lignite, veri e propri inferni a cielo aperto che infestano ancora molte regioni della Germania. Quando andammo in Lusazia, tre anni fa, scoprimmo che l’ampliamento delle cave del “carbone marrone”, come lo chiamano i tedeschi, si stava ancora mangiando interi villaggi, stava spaccando le comunità tra chi accettava i soldi per andarsene e chi era nato lì, viveva lì da generazioni e voleva morire lì, anche a rischio di essere inghiottito da una gru. E un’attivista ci mostrò una scatolina piena di polvere nera che aveva raccolto per terra, che pioveva sulle comunità che vivevano sull’orlo delle cave. E l’analisi in laboratorio era stata chiara: quella polvere era tossica, conteneva arsenico, cadmio, piombo e mercurio. Ai bordi del “carbone marrone” si muore ancora di cancro.

L’ambizioso programma di uscita dal nucleare e contemporaneamente dal carbone richiede ovviamente un’accelerazione enorme sul piano dello sviluppo delle energie rinnovabili. E la riconversione è frenata anche da lungaggini burocratiche e miriadi di progetti bloccati da iniziative cittadine – raddoppiate dal 2000 a oggi. Uno degli slogan di Scholz in campagna elettorale è stata la promessa di “sei mesi invece di sei anni per il via libera a una pala eolica”. Attualmente sembra un’ambizione quasi irrealizzabile. Il think tank Agora Energiewende ha calcolato che la Germania dovrà installare circa 5 Gigawatt di energia solare in più all’anno al 2030 e 7 Gigawatt nel periodo successivo per raggiungere i suoi obiettivi sul Co2.

L’istituto economico di Monaco Ifo calcola che per la “svolta energetica” la Germania dovrà trovare tra i 500 e i 3.000 miliardi di euro entro il 2050 – tra lo 0,4 e il 2,5% del Pil per le energie rinnovabili e per la riconversione degli edifici a un consumo energetico più ecologico. “La maggior parte delle spese riguarderebbero gli investimenti in impianti e infrastrutture – da quelli per le energie rinnovabili all’ampliamento delle reti alla costruzione degli impianti per la mobilità elettrica. Ma non basta: anche il settore delle costruzioni avrà bisogno di nuove infrastrutture e di ristrutturare gli edifici per renderli più ecologici e per impiantare più pompe a calore”. Già quest’anno la Germania ha cominciato a “prezzare” il Co2 – e questo nel Paese con le bollette più alte in Europa. Ma naturalmente il prezzo sui gas serra si fa sentire anche nella vita di tutti i giorni, dal litro di latte al chilo di pane. E la Banca centrale europea ha già reso noto che il picco di inflazione che si registra in questi mesi in Germania e che secondo la Bundesbank potrebbe sfiorare il 5% a fine anno, sconta anche il prezzamento del Co2 appena introdotto.

La geografia del voto del 26 settembre 2021

 

Il muro

Guardando la cartina dei risultati delle urne del 26 settembre si nota un’ampia macchia blu al centro della Germania, in un’area affacciate a Est sulla Polonia e la Repubblica Ceca. Sono la Turingia e la Sassonia e in entrambi i land, governati rispettivamente dalla Linke e dalla Cdu, l’ultradestra Afd è diventata il primo partito. Il suo colore è il blu. Nella regione del classicismo tedesco e di Weimar, l’ultradestra ha preso il 24%, staccando di mezzo punto la Linke. Nel land di Dresda, la città amata dal Canaletto, la Cdu è diventata addirittura il terzo partito (17,2%), dietro alla Spd (19,3%) e all’Afd che ha conquistato il 24,6% dei voti. Il governatore cristianodemocratico della Sassonia, Michael Kretschmer, infuriato, è partito all’assalto di Armin Laschet. “Questo risultato è un terremoto” ha detto ai microfoni del Mdr. Aggiungendo che il secondo posto raggiunto dal candidato della Cdu/Csu alle elezioni politiche “non gli dà il diritto di formare un governo”. L’avviso di sfratto, ci spiega il parlamentare della Cdu Marian Wendt, “è dettato dal fatto che l’Afd in realtà non si è rafforzata: è la Cdu che è crollata”. E in questi land molti elettori cristianodemocratici e alcuni governatori non hanno mai fatto mistero che avrebbero preferito il leader della Csu Markus Soeder come spitzenkandidat dei conservatori.

La verità, però, è che l’ultradestra Afd ha conquistato ormai da anni un quarto o un quinto dei voti in molti land della ex Germania comunista. Al livello federale, stavolta, ha perso due punti ed è scivolata al 10%. Ma è plausibile che alcuni elettori estremisti siano migrati verso partiti No Vax o neonazisti come “Die Basis” o “Dritter Weg” che non avendo superato la soglia di sbarramento del 5% risultano accorpati nella voce “altri”. La domanda che nasce spontanea, dunque, è come mai nell’area della vecchia Ddr un tedesco su cinque continui a votare un partito con cui nessuno vuole coalizzarsi. E che negli anni ha continuato a spostarsi a destra. Peraltro, è una tendenza che non si fermerà. Proprio dalla Turingia arriva il leader dell’ala estremista dell’Afd, Bjoern Hoecke. La corrente che aveva fondato anni fa, “Der Fluegel”, si è sciolta dopo che i servizi segreti interni, il Verfassungsschutz, ha dichiarato che si tratta di un partito estremista di destra che minaccia la democrazia. Ma i suoi membri continuano a infestare il partito e si preparano a scalzare i vertici moderati – Alice Weidel, Tino Chrupalla e Joerg Meuthen – al congresso di dicembre.

Dal punto di vista puramente economico la Riunificazione è stata un successo clamoroso. In trentun anni un Paese in bancarotta è stato risanato, e oggi le differenze tra salari e pensioni sono quasi irrilevanti e i tassi di disoccupazione, che negli anni Novanta e Duemila erano schizzati al 15-20% quando le aziende decotte erano state frettolosamente smantellate o svendute, sono rientrati e attualmente sono lontani dai livelli dell’Ovest: l’8% contro il 6%. Eppure, i tedeschi dell’Est continuano a votare un partito di protesta xenofobo, filorusso, negazionista sul clima e, ultimamente, no mask.Se la Riunificazione è stata la realizzazione, dal punto di vista economico, della promessa dei “paesaggi in fiore” di Helmut Kohl, ha lasciato la sensazione in molti tedeschi di una brutale annessione. Il 95% delle imprese vendute dalla Treuhand, la mega holding che assorbì l’intera industria della Ddr, sono andate a investitori dell’Ovest o stranieri.

E tutti i land hanno sofferto un massiccio spopolamento, soprattutto dei giovani, verso le regioni della vecchia Bundesrepublik. Ancora oggi, molte lettere ai giornali locali parlano del trauma della Treuhand, di vite rovinate dopo il 1989 perché molte lauree o molte specializzazioni dell’Est erano considerate carta straccia, nella Germania riunificata. E quando sono arrivati i profughi, nel 2015, dopo anni di austerità, di tagli, di accorpamento di scuole e ospedali nei piccoli villaggi, di rincorsa dei Comuni anche più piccoli del pareggio di bilancio dopo anni di risanamento e di indebitamento, molti cittadini della Germania est si sono sentiti minacciati. Uno dei libri di maggiore successo degli ultimi anni è una indagine nel malumore dell’Est della ministra sassone per l’Integrazione, la socialdemocratica Petra Koepping. Che ha esaminato a fondo i motivi della sensazione diffusa dei cittadini delle regioni di essere cittadini di serie B. Ne ha indagato le rabbie, le umiliazioni, le biografie spezzate e ne ha tratto un pamphlet ispirato a una frase orecchiata a una manifestazione islamofoba di “Pegida”: “Integrate anzitutto noi!”. 

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