PARIGI – “Ho sentito dire da uno degli imputati che l’uccisione di 130 persone non ha niente di personale”. Nell’aula del tribunale, Luciana Milani parla in modo deciso, leggendo un foglio, fermandosi ogni tanto solo per aspettare la traduzione in francese dell’interprete. La madre di Valeria Solesin, la studentessa di ventotto anni uccisa al Bataclan sei anni fa, guarda i magistrati davanti a lei ma si rivolge indirettamente ai terroristi. Alla sua sinistra, dietro ai vetri blindati, c’è Salah Abdeslam, unico sopravvissuto del commando di jihadisti, che all’inizio del maxi-processo ha dichiarato: “Abbiamo voluto colpire la Francia, non c’era niente di personale”.
“Questa allocuzione così banale e convenzionale mi ha fatto pensare. E’ rivelatrice di un pensiero più profondo e netto” dice Milani che dimostra un’ammirevole calma, rispetto ad altri parenti di vittime che si sono succeduti nel palazzo di Giustizia. Per i terroristi, osserva la signora veneziana che tradisce l’emozione solo dal tremore alle mani, “questi morti non sono persone, non sono esseri umani, sono metafore di quello odiano, di quello che vogliono combattere”. Milani si ferma e domanda ai quattordici imputati, quasi in tono di sfida: “Cosa rappresentano per loro questi 130 morti, i morti che noi piangiamo e che per motivi a noi misteriosi sono diventati il loro bersaglio? Chiedo agli imputati di rispondere ed esprimere il loro pensiero”.
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Il dialogo non può esserci. Nel processo cominciato a settembre è il momento delle parti civili, oltre millecinquecento, una traversata nel dolore e nell’orrore che va avanti da settimane. Abdeslam ha già provato a interrompere il dibattimento con varie provocazioni. Questa volta resta in silenzio, impassibile dietro alla mascherina nera. Arriverà anche per lui e gli altri uomini sul banco degli accusati il momento di parlare. “Il fatto che il processo si svolga, che gli imputati abbiano diritto alla difesa è di per sé importante” dice la madre di Valeria, sottolineando che “insieme a Parigi e alla Francia è stata colpita l’Europa e il mondo intero, almeno quella parte di mondo che condivide la democrazia, il rispetto dei diritti umani e della tolleranza”.
La mamma di Valeria ricorda quel venerdì 13 novembre in cui la sua vita è precipitata in una “terra incognita”. La luce autunnale che porta una certa malinconia, la tv che lei e il marito guardavano distrattamente all’ora di cena, le breaking news da Parigi che interrompono i programmi. Milani racconta le telefonate a vuoto, le notizie frammentarie i primi contatti con la Farnesina, quel nome “Bataclan” sentito per la prima volta, l’arrivo di parenti e amici preoccupati. “La casa su cui si addensa la confusione e il disordine del lutto”. Valeria era a Parigi dal 2010, preparava un dottorato in demografia, si era da poco trasferita nell’undicesimo arrondissement. “Era una persona felice, una fonte di felicità e vero divertimento per noi” ricorda la madre. “Ancora oggi il riverbero di quella felicità si sente e ci permette di guardare avanti”.
Quella della mamma di Valeria è una testimonianza “commovente”, come dice il presidente della Corte d’assise, Jean-Louis Péries prima di salutarla. Forse anche per il tono pacato che usa, per la sua volontà di capire. “Come tutte le altre parti civili – spiega – sono qui per cercare un senso, se non propriamente delle risposte”. Sono chiamati a testimoniare due amici di Valeria che erano con lei al Bataclan. “Vivo con il senso di colpa di non aver potuto fare qualcosa” ricorda Alessia, riuscita a nascondersi durante l’attacco. “Quando sono uscita, ho cercato Valeria in ogni viso, senza mai ritrovarla”. Anche lei si rivolge ai terroristi, confidando la rabbia di aver perso la sua giovinezza “ma non la sua anima”. E di voler “vivere per quelli che non ci sono più”. Jean-Philippe fa un breve intervento, si sente a fatica. Spiega di non volere che il processo sia “strumentalizzato”, cita la legge che ha abolito la pena di morte in Francia, giusto quarant’anni fa, e si domanda se ci sarà alla fine di questo percorso giudiziario “una pena all’altezza dei fatti”.
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I due giovani, piegati dall’angoscia, vanno a risedersi non lontano dalla mamma di Valeria. La signora ha seguito dall’Italia l’inizio del processo con i racconti dei media, purtroppo la webradio che trasmette la diretta delle udienze per le parti civili non è disponibile dall’estero. “Motivi di sicurezza informatica” spiega il presidente della Corte che vorrebbe, almeno in questo, poter dare soddisfazione alla donna. Lei sorride. “Chiaro, capisco” aggiunge in modo garbato. E’ venuta a Parigi sentendo di avere un dovere di rappresentare sua figlia. Come ogni volta da sei anni, quando è nella capitale francese, è andata boulevard Voltaire per portare un fiore sulla lapide che riporta i nomi delle vittime del Bataclan. “E’ nel giardinetto più brutto di Parigi, ma non importa. Quel fiore – conclude – è per i nostri figli, le nostre sorelle, per i nostri amori”.