Gli ultimi giorni di Riina, la foto mai vista del boss con la famiglia. L’ex procuratore Grasso: “Leggi e umanità hanno vinto sulla mafia”

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A prima vista, non li riconosci neanche. Sembra una famiglia come tante in una stanza d’ospedale: l’anziano ammalato che sussurra qualcosa, i figli che lo confortano con un gran sorriso mentre la moglie racconta le ultime di casa. Ma non è una famiglia come tante quella ritratta nella foto che Repubblica è in grado di mostrare in esclusiva. L’anziano ammalato – che morirà pochi mesi dopo, il 17 novembre 2017 – è Salvatore Riina, il famigerato capo dei capi di Cosa nostra siciliana: alla fine degli anni Settanta aveva scatenato la guerra allo Stato, nel 1992 fece saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino. Il padrino arrivato da Corleone era al carcere duro dal 15 gennaio 1993, in quell’ala dell’ospedale di Parma era stato trasferito nel 2015, quando le sue condizioni di salute si erano aggravate. Aveva una corsia blindata solo per lui, un 41 bis in ospedale, con uno staff di medici di prim’ordine. Quel giorno, erano venuti a trovarlo i figli Salvo e Maria Concetta, con Ninetta Bagarella.

“Lo Stato ha assicurato il massimo dell’assistenza sanitaria e dell’umanità al criminale Salvatore Riina – dice Piero Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, oggi senatore – questa foto che Repubblica mi mostra è la dimostrazione più chiara che il 41 bis non è stato mai tortura, ma solo uno strumento per evitare che i capomafia potessero comunicare con gli altri detenuti e soprattutto con l’esterno. Questa foto è la prova che lo Stato ha vinto sulla mafia, perché non ha risposto alla violenza delle stragi con altra violenza, ma con il diritto e le regole, quelle per cui Giovanni Falcone si è battuto per una vita”.

In quei giorni del 2017, si sollevò un gran dibattito dopo che le condizioni di Riina si aggravarono. Ecco la questione: giusto o no continuare a tenere al carcere duro un mafioso di 87 anni? La Cassazione intervenne per ribadire il “diritto a morire dignitosamente”, lo scrisse in un provvedimento che accoglieva un ricorso dei legali del padrino di Corleone. Un ricorso contro la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva negato a Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute: i giudici della Cassazione chiesero una nuova istruttoria. Alla fine, il boss restò comunque nel suo bunker in corsia.

Intanto, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria assicurava non solo il massimo della sorveglianza in ospedale per il capo di Cosa nostra, ma anche il colloquio mensile con i suoi familiari. Tutto secondo le regole del 41 bis stabilite all’indomani della strage Falcone. Riina era tenuto sotto controllo 24 ore su 24 non solo dal reparto di eccellenza della polizia penitenziaria, il Gom, ma anche dai magistrati della procura di Palermo: le intercettazioni venivano esaminate con cura dal sostituto procuratore Roberto Tartaglia (oggi vice capo del dipartimento delle carceri) e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che indagavano su alcuni strani movimenti dei mafiosi corleonesi in Sicilia.

A rivedere oggi quell’immagine di Riina con i suoi familiari, tratta dai video di sorveglianza in corsia, viene da pensare che lo Stato abbia rispettato il monito della Cassazione: “Anche i mafiosi hanno diritto a morire dignitosamente”. Senza che venga tolto il conforto dei propri cari. “La mafia delle stragi l’abbiamo vinta con il codice, con le leggi, non con la vendetta – dice Piero Grasso, che ha appena pubblicato con Alessio Pasquini un libro intenso di ricordi, “Il mio amico Giovanni” s’intitola – ho ancora in mente le parole di dolore che pronunciò Giovanni Falcone quando nel 1989 vennero diffuse le lettere anonime del Corvo che l’accusavano di avere utilizzato il pentito Contorno come killer di Stato”.

Trent’anni dopo le stragi, dunque, possiamo dire che le regole e l’umanità delle istituzioni hanno vinto sulla violenza mafiosa. Ma il capo dei capi si è portato comunque tanti segreti nella tomba. Sulle bombe e sulle complicità eccellenti. Il primogenito di casa Riina, Giovanni, è pure lui al 41 bis, condannato all’ergastolo. L’altro figlio, Salvo, ha già scontato una condanna per associazione mafiosa e vive lontano dalla Sicilia. La famiglia Riina continua a conservare il segreto di un tesoro mai trovato.

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