Milan, la regola di Pioli: essere straordinario senza doverlo urlare

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C’era un ragazzo pieno di capelli ricci e con una gamba ingessata, assai taciturno, sull’aereo che riportava la Juve da Bruxelles a Torino. Maggio 1985: Stefano Pioli aveva vent’anni e aveva visto tutto. Infortunato, ma ugualmente in trasferta nello stadio dove la sua squadra stava per giocarsi una Coppa dei Campioni, fu l’unico tra i giocatori juventini a guardare l’abisso dal primo istante, seduto in tribuna. I compagni, gli altri, erano negli spogliatoi. “Vidi la folla ondeggiare, non il muro crollare perché ci fecero subito scendere. La partita la guardai a bordocampo, ero sicuro che l’avrebbero ripetuta”.

Oggi, Pioli sembra il padre di quel ragazzo. La sua mistica, compresi i gesti e la postura, oltre che la pacatezza e la misura dei toni, è quasi monacale. Così asciutto, quasi consumato, pare fatto di legno, fil di ferro e barba. Forse dimostra più dei 57 anni che avrà a ottobre. La sua storia racconta un magistero tecnico autentico, anche se finora aveva vinto solo un campionato Allievi col Bologna: ma ottenere risultati e vincere sono sinonimi ingannevoli.

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La consunzione di Pioli, quel volto sempre serio e quasi triste, viene spontaneo accostarli al dolore e agli urti che la vita e la carriera non gli hanno negato. L’Heysel, ma anche la tremenda scomparsa di Davide Astori quel 4 marzo 2018, quando Pioli allenava la Fiorentina. Nel 1985, da jolly difensivo vinse la Coppa Intercontinentale a Tokyo accanto a Platini, entrò al 64′ e visse lungamente quella finale gloriosa: al posto di Scirea. Il destino esiste. Nove anni più tardi, in campo gli si fermerà il cuore dopo uno scontro con Protti in Fiorentina-Bari, ma lo salveranno. “Mi svegliai nel tubo della Tac, non sapevo se ero vivo o morto, urlai talmente forte che mi tirarono fuori e mi fecero l’esame il giorno dopo”. La morte non è quella cosa che riguarda sempre gli altri.

Stefano Pioli ha dovuto penare anche dal punto di vita sportivo per arrivare fin qui. Quand’era al Palermo venne esonerato da Zamparini un 31 agosto, prima ancora che il campionato iniziasse. Anche Lotito lo manderà via, anche l’Inter, contro cui la vendetta tricolore si è appena consumata. Ma la ferita più profonda per l’orgoglio è quella che ha saputo evitare al Milan, dove nell’anno del Covid era ormai un allenatore scaduto. Gli avevano preferito il tedesco Rangnick. Ma alla ripresa, il Milan cominciò a vincere quasi sempre, dimostrando che i giocatori erano le dita strette attorno al pugno e il pugno era Pioli. Rimase, dunque, a furor di logica oltre che di popolo.

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Non gli piace essere chiamato normalizzatore, forse perché la normalità è sottovalutata. Un suo amico, l’ex portiere Stefano Sorrentino, lo definisce una mosca bianca nel calcio isterico e sproporzionato. Pioli non suscita suggestioni da fenomeno ma è un maestro nell’antica arte di costruire un gruppo. Gli è riuscito nella drammatica tempesta di Firenze, lo ha fatto benissimo nel Milan dei giovani e del vecchio totem: Ibra e i ragazzini non hanno mai avuto crisi di asincronia. Pur essendo un finto tranquillo, Pioli sa controllarsi e litiga poco, una volta gli accadde con Gasperini, per il resto è un esempio. Dopo il clamoroso errore dell’arbitro Serra contro lo Spezia che costò tre punti ai rossoneri, Pioli andò a consolare il malcapitato. “Noi abbiamo sbagliato più di lui, altrimenti avremmo vinto”.

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Da giocatore, dove lo mettevi stava e ci stava benissimo. “Il nuovo Cabrini”, disse qualcuno quando arrivò alla Juve, ovviamente un’assurdità, tra l’altro Pioli era più uno stopper. Ma la sua duttilità piaceva molto a Trapattoni. Si ruppe quattro volte il piede, nell’ultima gli servì un trapianto osseo: la sorte non gli ha mai fatto sconti. Forse per questo non si è sciolto davvero fino al minuto 88 dell’ultima partita, nella sua Emilia, quando ha disegnato un cuore con le dita, è saltato in braccio a Dida, si è arrotolato le maniche della lunga polo bianca. Ha capito che era fatta, già. Stefano Pioli viene da Parma ed è un emiliano introverso, molto fedele agli amici. Il vecchio compagno di squadra Giacomo Murelli è il suo vice da quasi vent’anni. Una storia confortante e romantica: si può arrivare senza strafare, ma facendo come si deve.

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